PIOGGIA DI NATALE di Aina Sensi




Citizen Soldier – Three Doors Down

1.
Si sedeva per terra, nel solito angolo della piazza, di fianco ai gradini del Duomo dalla facciata così austera. Nessuno era interessato a quell’angolo, ricettacolo solo di mozziconi di sigaretta e cartacce; la gente per bene tagliava lo spiazzo esattamente nel mezzo, camminando verso il corto portico sulla passerella di lastroni piatti che consentivano di salvare i tacchi dalle fessure tra i sanpietrini.
Sistemava un panchetto davanti a sé e il borsone dietro, in modo da potervisi appoggiare con la schiena, e con tutta la calma del mondo tirava fuori la merce che così tanto gli era costata.
Ombrelli.
Ombrelli da pioggia, da sole, da attacco al napalm. Chiunque avesse una necessità, Hasani aveva la soluzione.
I clienti li riconosceva da lontano, dalla velocità della camminata, da come stavano ricurvi su se stessi o eretti a sfidare gli sguardi altrui, dalla tensione nei lineamenti del viso, tra le sopracciglia o nei tendini del collo. E dall’accompagnatore, certo: il padre che teneva la figlioletta al riparo sotto al cappotto; la signora che l’ombrello doveva coprire prima il cane e poi se stessa; il ragazzino disposto al raffreddore pur di rubare un bacio a una bocca timida che si nascondeva nella pioggia.

Domenica; i tocchi delle campane vibravano da goccia a goccia in questa giornata grigia e fosca.
Hasani se ne stava col volto all’insù e gli occhi chiusi, facendosi baciare dal fresco della nebbia densa. Mai nella sua infanzia aveva sentito tutta quest’acqua sulla pelle, e non poteva fare a meno di godere di questi momenti con la stessa gioia con cui da bambino se ne stava a braccia aperte sotto ai rari acquazzoni.
Le porte del Duomo si aprirono, e i fedeli iniziarono a defluire giù dagli scalini, come ogni festa.
Una signora di mezza età si fece largo scrutando il cielo e proseguendo di fretta, il fazzoletto in testa, il volto mesto. Bella come solo queste donne bianche potevano essere: curate, profumate, con i loro vestiti pesanti e raffinati, dai colori sobri così eleganti e tristi.
Hasani spostò qualche ombrello, ma non trovò quello giusto. Finché prese il borsone, cercò sul fondo, scansandone alcuni dai colori pastello, e lo trovò.
«Un ombrello, bella signora?»
«Non compro niente», gli occhi aspri fissi nei suoi.
Hasani sorrise e mosse lo scatto meccanico per invogliarla. Un tessuto lucente si dispiegò, aprendosi a raggiera, tanto che la signora dovette abbassare lo sguardo. Tentennò, su quei tacchi da due centimetri, e alla fine cedette, come convinta da un bisbiglio divino. Diede la colpa alla messa, al rosario ancora tra le dita che le scottava, al riflesso degli angeli che era certa di riuscire a scorgere tra le pieghe di quel tessuto cangiante che continuava ad aprirsi e chiudersi come le ali di un uccello in volo.
Hasani non smise di sorridere consegnandole l’ombrello già aperto e pronto da indossare. Sì, perché i suoi ombrelli erano su misura, proprio come capi di abbigliamento. Non ce n’erano due uguali, perché ognuno di essi aveva un proprietario inespresso, e a ognuno di loro Hasani voleva trovar casa.

2.
Faceva caldo in quella mattina di luglio. Caldo per il posto in cui si trovava, poiché di caldi lui ne aveva provati altri. Quelli che senti lo sfrigolio della testa che si arroventa. Quelli che ti fanno perdere il senno e vedi i riverberi di oasi che non ci sono riflesse sulla sabbia. Quelli che temi che il corpo non possa reggere ancora molto prima di prendere fuoco. E poi c’era questo caldo, un piacevole tepore con il quale il corpo si sintonizzava, adeguando la temperatura, la sudorazione e la richiesta di liquidi.
I ragazzi che frequentavano l’Università erano seduti sugli scalini della chiesa a ripassare, chini sui libri grandi come enciclopedie, quelle che stavano nella casa del missionario che frequentava da bambino. Era chiaramente giornata di esami. Avrebbe dovuto attendere le prime ragazze uscire dal portone col volto soddisfatto, per riuscire a vendere qualche borsa di finta griffe. Non era giornata per gli ombrelli, oggi; si sarebbe accontentato di fare qualche disegno con i carboncini.
Sul gradino più alto, un giovane con un filo di barba e una sottile maglietta di cotone se ne stava col capo riverso all’indietro, i palmi poggiati sul lastricato antico, assaporando il calore dei raggi sul viso; la stessa posizione che Hasani assumeva nei giorni di pioggia. Questo pensiero lo fece sorridere, e trattenne lo sguardo su di lui per qualche attimo in più. Che altro aveva da fare?
Il giovane aprì gli occhi, si raddrizzò e tirò fuori dallo zaino una bottiglietta d’acqua. Nel frattempo una ragazza saliva gli scalini a due a due per sederglisi accanto, gli occhi che non trattenevano cosa provava per lui.
Il ragazzo si accorse di lei e un grosso sorriso comparve spontaneo, come quelli che si regalano agli amici che offrono una birra, quindi aprì la bottiglietta e se la versò sulla testa. I due scoppiarono a ridere, lui con i rivoli che colavano dai capelli appiattiti, lei che glieli avrebbe volentieri leccati via dalla pelle dove erano gocciolati.
Le dita grandi lasciarono la bottiglia a terra e si infilarono nei capelli bagnati, quindi con tenerezza si posarono sul viso della ragazza, togliendole a sua volta il peso della calura. L’incrocio di sguardi fu fatale, e non le fu più possibile nascondere che il rosso delle gote era diventato ancora più acceso, frutto del gesto e non del sole.
Il ragazzo sollevò le sopracciglia; non immaginava e fece per ritrarre i palmi. Ma lei lo bloccò per i polsi, e passò veloce dalla timidezza all’ardore, sporgendosi in avanti, fino a sfiorargli le labbra con le sue. Lui chiuse gli occhi, poiché un bacio senza occhi chiusi non è un bacio, e quando li riaprì era più confuso di prima.
Un sorriso gli si impacciò sul viso, mentre quello di lei si aprì luccicando di gioia.
Stettero immobili per un po’, in attesa di un gesto da parte l’uno dell’altro, finché lei abbassò lo sguardo e si ritrasse. E fu questo movimento che riscosse lui, che sbatté le ciglia e la attirò di nuovo a sé, per completare ciò che era solo stato sfiorato.
Hasani si scioglieva di tenerezza nell’osservare, o meglio, spiare, la coppia che era appena nata. Ricordò quando aveva dato il suo primo bacio alla bella Faraa, e a quanto non le fosse mancato nei giorni successivi. Scosse la testa e ricordò tutta quella confusione con dolce malinconia. L’eccitazione, la voglia di scoprire, i tuffi al cuore che provava nel momento sbagliato, e che sparivano in quello giusto. E ricordò il momento in cui perdonò se stesso, in cui liberò Faraa dalle aspettative. L’abbraccio forte che le diede e tutti i sentimenti contrastanti che provocò sul suo viso così perfetto, un garbuglio di sconcerto, rabbia, delusione, paura, colpa, umiliazione.
I ragazzi nel frattempo si erano alzati e iniziavano a scendere la scalinata mano nella mano, lei che pareva avesse atterrato un leone, lui caduto da un albero di tre metri.
Hasani avrebbe saputo trovarlo l’ombrello giusto, e anzi si mise a tratteggiarlo, prendendo un carboncino rosa antico e iniziando a disegnare baci stampati sulla cupola.

3.
Il periodo d’esami era passato, e gli autoctoni erano quasi tutti spariti, forse per le vacanze. La grande piazza con i sassi tondi attraversati dalle quattro corsie di lastricato era vuota sotto questo temporale estivo, e persino sotto al piccolo portico stavano appena un paio di vecchietti in attesa che spiovesse.
Hasani apprezzava le gocce su di sé, ma quell’acquazzone gli stava scorrendo sotto alle cosce in un fiume così grosso che temeva fosse davvero il momento di andare al coperto.
Un’ombra nera stava fluttuando giù dai gradini del duomo, e quando sollevò lo sguardo notò che si trattava del curato. Il Don, come lo chiamavano tutti, scendeva verso di lui con un’espressione accogliente, la pioggia torrenziale che già lo stava inzuppando da capo a piedi.
«Perchè non li usi per ripararti?», gli chiese, come si rimprovera un bambino che si è sbucciato perché guardava in aria.
«Ognuno ha il suo proprietario, e nessuno di essi è per me.»
Il prete scosse la testa tirando le labbra su un lato e gli porse la mano. «Vieni dentro, vah.»

4.
L’università aveva riaperto e la piazza si era riempita di nuovo di studenti, professori, negozianti e professanti. La giornata era iniziata con un sole bollente anche se era pieno settembre, ma poco dopo che l’orologio della piazza aveva suonato il mezzogiorno il cielo aveva iniziato a farsi grigio. Hasani fu felice di mettere via le borse per preparare la distesa degli ombrelli.
«Un ombrello? Costa poco.»
Il più delle volte la gente si scansava o si voltava dall’altra parte, come se la sua offerta fosse un’appiccicosa lingua di geco. O forse solo un modo per mettere a tacere la coscienza. Leggeva il disgusto su di loro, come se temessero un contagio di lebbra solo attraverso lo sguardo. Ma Hasani non lo era, un lebbroso, non era mai stato più sano di così. Li aveva visti i malati, al suo paese. E sapeva che non era trattandoli come ratti che li si aiutava a guarire. Che anche i ratti, poi, a loro modo, avevano una dignità e meritavano un saluto.
Se non avesse avuto un fisico solido non avrebbe potuto sopravvivere alla traversata del deserto, alla galera in cui una polizia corrotta l’aveva rinchiuso e torturato, ai marciapiedi su cui era stato buttato, e certamente non avrebbe potuto affrontare la traversata e sopravvivere al naufragio.
No, Hasani era sano come un pesce, e neppure la pioggia scalfiva questo suo fisico robusto.
«Posso vedere quei disegni? Quanto vengono?»
Un uomo brizzolato in una giacca marrone sformata fissava il suo raccoglitore, curioso.
«Non sono in vendita. Ma può prendere un ombrello.»
«Non cerco un ombrello.»
«Eppure sta per piovere», gli rammentò l’evidenza.
L’uomo piegò la testa di lato e lo scrutò bene negli occhi di petrolio, valutando se al costo di un ombrello avrebbe ottenuto il diritto di sfogliare i suoi cartoncini.
«E va bene. Ma che non sia ingombrante.»
Hasani affondò le mani nel sacco, un po’ a tentoni e un po’ infilando lo sguardo.
«Non lo voglio scuro. C’è già tanta tristezza in giro.»
Hasani sorrise. Non era certo nero, quello che aveva pensato per lui. Lo tirò fuori e glielo porse, aprendolo appena per mostrarglielo. Rosso corallo, asimmetrico, e con un punto di domanda bianco, come una carta degli Imprevisti. L’uomo trattenne un moto di compiacimento e infine aggiunse: «E vorrei vedere quegli schizzi.»
Le mani di Hasani tremarono leggermente mentre gli porgevano l’unica cosa che davvero parlava di sé, i suoi nuovi ricordi in questa città, il modo intimo in cui lui leggeva dentro alle persone. Sentì salire un piccolo brivido di vergogna, mentre le mani esperte passavano un foglio dietro l’altro e lo sguardo si soffermava attento su ogni tratto, ogni colore, meticoloso come un estimatore di diamanti.
«Dovresti frequentare l’Università. Saresti migliore di almeno la metà dei miei studenti», gli disse l’uomo, con un consiglio accorato. Hasani non poté trattenere una risata.
«L’ho fatto», rispose, e occhi sorpresi fissarono i suoi. «Architettura, per un anno. Prima che la bombardassero.»
Il professore chinò di nuovo il capo sui disegni, e aggrottando la fronte riprese la sua minuziosa analisi.
«Scusa, quanto costa questo?», lo distrasse una giovane studente, e lui rispose senza lasciare il posto in cui si trovava, esattamente di fronte ai suoi fogli e alla persona che poteva rappresentare per il suo destino una svolta – o forse no. Una strana inquietudine lo agitava dentro, in attesa di ottenere il verdetto.
«E questo?», insisteva la ragazza. Hasani dovette dedicarle attenzione e indirizzarla verso l’ombrello giusto – una cupola trasparente bordata dello skyline di New York – per ottenere un grande sorriso e un acquisto soddisfatto. Rapido, soprattutto. L’insegnante stava ora risistemando i fogli in modo ordinato, le labbra arricciate. Rialzò il viso e glieli porse, trattenendone uno.
«Posso tenerlo? Te lo restituisco, promesso.»
Hasani tentennava nel lasciar andare un pezzo di sé, ma si chiese se era disposto a prendere quella carta delle probabilità. Decise di correre il rischio e annuì.
L’uomo restituì quindi gli altri disegni e pagò l’ombrello strambo con alcune banconote da dieci.
«È troppo…», si schernì Hasani.
L’uomo gli strizzò l’occhio.
«Perché non ti fai una dormita giù all’ostello? Una doccia, un pasto caldo, magari.»
Hasani gli fece un piccolo inchino con il capo, incapace di proferire un vero ringraziamento. La gola se lo stava trattenendo questo grazie, attorcigliato in un nodo che non saliva e non scendeva. Tenne il capo chino per un po’, una riverenza degna di un Re Magio, e per lui quell’uomo non era certo da meno. Quella sera avrebbe indossato i suoi abiti polverosi su un corpo pulito e profumato: mica roba da poco!
Il boato di un tuono brontolante gli fece alzare il viso verso quella coperta di nuvole ribollente. Un attimo dopo il gridare di una donna arrabbiata richiamò l’attenzione di parecchi sguardi sulla piazza.
Era la ragazza degli scalini, che ora spintonava il giovanotto e gli gridava addosso parole cattive. E lui teneva le labbra serrate e gli occhi tristi, assorbendo ogni colpo e ogni parola come se li meritasse. Era durata parecchio, quella relazione, pensò Hasani, mentre si passava gli ombrelli tra le mani e cercava la disposizione perfetta.
Sulle lacrime della ragazza iniziarono a scendere le prime gocce. Con l’espressione ferita batté un’ultima volta i pugni sul petto del ragazzo, quindi, con le mani sulla testa creando un improvvisato riparo, si avviò a passo veloce giù per la via.
Hasani sollevò l’ombrello che aveva preparato per lei. Glielo avrebbe offerto, se gli fosse passata accanto, ma il suo sguardo non lo incrociò mai. Passò allora all’altra anima in pena. Le braccia lungo i fianchi, spalle abbandonate. Le gocce coprivano ormai la pelle del viso, impedendo di capire se anche lui stesse piangendo o meno. Gli sollevò un ombrello e gli sorrise. Il ragazzo, Valerio aveva sentito chiamarlo, si accorse di lui e gli si avvicinò sconvolto.
«Quant’è?», chiese prendendolo e aprendolo sulla testa senza neppure guardarne il colore. Pagò e fece per allontanarsi, certo per andare a ubriacarsi nel suo dolore, quando Hasani gli allungò il secondo ombrello. Gli sarebbe costata la cena, ma quella giovane in qualche modo aveva risvegliato il ricordo di Faraa, e sentiva di doverle ancora qualcosa.
«Questo è per lei. È un regalo.»
Valerio ringraziò, e, come rinvigorito di nuovo, corse a raggiungere la sua ragazza, ora probabilmente ex, aprendole l’ombrello e porgendoglielo.
Era strano vederli così, eppure era come se l’era sempre immaginato. Lui, col sipario di un tendone che si apriva, e lei, con una tela verde pistacchio che la copriva fino ai piedi e un piccolo spioncino ovale per vedere fuori.
Era un ombrello speciale, uno da tirare fuori solo in certe occasioni. Lo avrebbe usato solo per un po’: Hasani era certo che tra qualche tempo sarebbe venuta a cambiarlo con uno a fiori colorati.
La ragazza accettò il regalo e scappò via, lasciando Valerio fermo nel mezzo della piazza a mangiucchiarsi un dito. Ci mise un po’ prima di mettere un piede davanti all’altro e infilare il portone della scuola.

5.
Hasani assistette alla rottura fra quei due studenti con rassegnazione. L’aveva previsto fin da subito, da quando sui gradini aveva visto stridere il sorriso estatico di lei con quello confuso di lui. Eppure lo rattristava vederli arrivare in momenti diversi e ignorarsi l’un l’altro. Entrambi soffrivano, l’una di una rabbia cupa e impotente, l’altro per una colpa che non era certo di avere.
Passarono ancora alcune settimane, il primo semestre volgeva al termine, e con esso il clima si era fatto sempre più rigido e umido. Hasani aveva recuperato un giaccone pesante alla casa della Carità e il freddo non lo spaventava, non tanto quanto la solitudine. E continuava ad allestire il suo banchetto nell’angolo della piazza ogni giorno, più zelante di un negoziante che pagava le tasse. I vigili ormai l’avevano preso in simpatia, e il più delle volte lo ignoravano.
Il professor Calisto, dopo avergli riportato il bozzetto e avergliene chiesti altri in visione, gli aveva riportato un parere positivo da parte di alcuni colleghi dell’Istituto d’Arte. Senza spendersi in promesse, gli aveva prospettato l’intenzione di farlo conoscere nell’ambiente, e chissà, che da cosa non sarebbe nata cosa. Hasani quindi gustava ogni giorno sotto la pioggia come se fosse stato l’ultimo, con già quella malinconia tipica della nostalgia, e allo stesso tempo con febbricitante attesa.
Ma un mese era passato, e ancora nessuno era venuto a chiamarlo. Vedeva Calisto entrare e uscire dal portone tre giorni su cinque, si scambiavano un saluto, gli lasciava un suo schizzo, diverso ogni volta, e poi rimaneva in attesa di notizie, sotto una pioggerellina gelida che rendeva il pietrisco scivoloso.
Eccolo, Valerio, che si era fatto crescere la barba e arrivava sotto la pioggia reggendo un ombrellino con un braccio rotto. Negli ultimi tempi aveva ricominciato a scambiare qualche parola con la ragazza, e anche lei appariva più serena: indossava sciarpe colorate e rideva più spesso. Lo aveva accolto sotto al suo grande ombrello fiorato per gli ultimi metri verso il portone, e lui si era deciso a gettare il suo rottame nel cestino sulla strada.
Poi lei entrò, mentre lui si guardò intorno, fermando lo sguardo sul banchetto di Hasani.
«Greta!», la chiamò, e lei si sporse sorpresa. Le chiese in prestito l’ombrello ricambiando con un bacio sulla guancia, quindi si affrettò in direzione del venditore dalla pelle scura.
Hasani iniziava già a scrutare la sua mercanzia per trovare qualcosa di adatto, ma non era certo di cosa fosse opportuno stavolta. Rimase confuso quando sentì le gocce mancare un tocco sui capelli crespi, e poi il successivo. Sollevò la fronte e vide che un bouquet fiorato gli copriva la visuale verso le nuvole. Erano petali quelli che scendevano su di lui.
Provò disagio, e orgoglio, e gratitudine, ed era come ricevere un ossequioso inchino: non lo meritava. Il desiderio di rifiutare fu forte, ma l’istinto lo portò per prima cosa a ringraziare.
«Perché non ti ripari sotto al portico?», gli chiedeva Valerio, una voce cristallina e spigliata.
«Mi piace la pioggia.»
«Ti ammalerai.»
Era solo una constatazione, eppure entrambi tacquero in un silenzio imbarazzante. Finché Valerio si riscosse, gli lasciò tra le mani l’asta di alluminio e fece per allontanarsi, sotto la pioggia.
Hasani aggirò il banchetto. «Aspetta, ti riaccompagno. È il minimo.»
Camminarono vicini, impacciati come bimbetti alla comunione.
«Che cosa frequenti?», gli chiese Hasani, per non fare tutto il tragitto in silenzio.
«Architettura», sorrise Valerio.
«Estimo, urbanistica, tecnologia…»
«Già!», storse il naso. E poi si voltò di scatto verso di lui. «Come lo sai?»
Hasani raddrizzò le spalle, dominandolo di parecchi centimetri. Avevano pochi anni di differenza, ma Valerio aveva un fisico esile, mentre lui pareva un atleta, alto e scolpito, sotto quegli stracci. «Sono nero, non ignorante.»
Valerio distolse lo sguardo. Sentì qualcosa crescere dentro, un’irrequietudine, una brama di fare la cosa giusta. Un impulso incontenibile, ingiustificabile, assurdo. Folle, perfino. Ma non poté trattenersi dall’assecondarlo, e decise di portarlo a compimento in quello stesso momento, prima di cambiare idea.
«Andiamo, vieni», disse all’improvviso, correndo a raccogliere la sacca di Hasani e infilandoci tutta la merce alla rinfusa.
«Dove?», chedeva l’altro, più scettico che stupito.
«Come accidenti fai a portare questa sacca?», sbottò Valerio sollevandola solo di pochi centimetri.
«Dove andiamo?», ripeté Hasani prendendogliela di mano.
«A prendere un caffè, o… quello che vuoi.»
«Meglio un panino.»
«Un panino, certo. Che stupido.»
Hasani si fermò, gli occhi stretti in una fessura.
«No. Dimmi perché.»
«Voglio proporti qualcosa», tentennò l’altro.
«Non ho bisogno della tua pietà.»
L’uomo dalla pelle scura, il volto tirato in tutto il suo orgoglio, si voltò e tornò nel suo angolo di piazza, gettando l’ombrello fiorato a terra.
«Aspetta!», lo chiamò Valerio. E non si era aspettato una fine tanto misera per il suo impulso di generosità, che non aveva neppure fatto in tempo a prendere vita.
«Accidenti, che stupido», borbottò, raccogliendo da terra l’ombrello di Greta e richiudendolo, incurante della pioggia che già gli aveva inzuppato gli abiti.
Non capì subito dove aveva sbagliato, Valerio, ma dopo qualche giorno ebbe un’idea.

6.
Hasani conosceva ormai tutti i paesani. Assisteva allo scorrere della loro vita dal suo banchetto, ai piedi della gradinata della chiesa, certo della loro indifferenza.
Le leggeva come libri aperti, quelle donne senza velo e senza timori, talmente libere da mostrarsi nelle loro intenzioni. E questi uomini non timorati dalla morale né dalle tradizioni, che liberamente mostravano sul viso i loro patemi, le gioie, le speranze. Questo mondo così sciolto sembrava facile da vivere, senza polizia, senza barbarie, senza padroni, senza povertà.
E come ormai sapeva identificare lo scorrere delle stagioni universitarie e le maratone di shopping del sabato pomeriggio, Hasani aveva imparato le abitudini di Valerio, del quale ormai conosceva le espressioni del viso e la tonalità di grigio che assumevano le sue iridi nelle giornate di pioggia. Lo avevano fissato intensamente, quelle iridi, e non era ancora riuscito a togliersi dalla testa quello sguardo intriso di pietà e superiorità.
Forse la sua reazione era stata eccessiva. Sarebbe stato così terribile accettare un panino? Aveva dovuto scendere a compromessi ben peggiori per poter terminare il suo viaggio in quella piazza. E solo Dio sapeva quanto gli avrebbe fatto piacere mangiare qualcosa con quel giovane studente in uno di quei locali che aveva sempre sbirciato dal di fuori. E in fondo, era proprio per questo che se n’era andato.
Lo aveva visto osservarlo da lontano, incerto su come avvicinarlo di nuovo, e non era del tutto certo di desiderare che lo facesse. Stava bene. Sì, non aveva agi, ma era vivo e in salute. Per ora, almeno.
Come ogni mattina, Valerio entrò nel forno e ne uscì con un sacchetto. Oggi lo zaino era ingombrante più del solito, troppo per quel corpo esile. Valerio si avvicinò alla bancarella per appoggiarvelo sopra. Lo aprì, vi infilò dentro il pranzo e se ne andò verso il portone dell’Università. Non alzò mai lo sguardo su di lui; lo fece e basta, come se avesse il diritto di stargli così vicino senza degnarlo di attenzione.
Hasani non lo seguì con lo sguardo mentre si allontanava, perché lo tenne fisso su un secondo sacchetto rimasto lì per lui, tra le borsette.
Sapeva che non era stato dimenticato. Era invece il suo modo di fargli avere quel panino senza obbligarlo a seguirlo. Arrogante, quel gesto. In fondo, voleva averla vinta lui, con lo sfoggio della sua generosità.
Lo prese in mano. Sopra c’era scritto, il filo sottile di una penna blu: “Scusa”.

7.
Hasani attese con un certo gorgoglìo di petto l’uscita pomeridiana di Valerio. Erano state tante le prove della vita in cui non aveva avuto il controllo della situazione, in cui non avrebbe saputo dire che fine avrebbe fatto neppure la sua vita, eppure era come se a certe cose non ci si abituasse mai: all’adrenalina dell’attesa, al brivido della scoperta.
Il ragazzo dalla pelle chiara come zanne d’elefante si mordeva il labbro mentre gli si avvicinava, e lui addolcì lo sguardo. Era orgoglioso, ma non voleva mostrarsi altezzoso.
«Ricominciamo», gli disse tendendo la mano. «Mi chiamo Valerio. Tu come ti chiami?»
«Hasani. Ciao.»
La sua stretta era forte, ed era strano vedere questa mano chiara intrecciarsi a quella scura.
Valerio si chiese perché fosse così difficile, perché ci avesse messo tanto a capirlo. Si chiese cos’altro dire. Posso offrirti…? Vorrei invitarti… Vorresti? Accetteresti? Ogni frase comprendeva un’offerta di aiuto, una proposta, un gesto pietoso. Dovette prendere un respiro profondo per trovare una domanda che non fosse sbagliata.
«Perché ami tanto la pioggia?»
L’altro sollevò un sopracciglio sorpreso, e Valerio temette di essere stato troppo indiscreto.
«Perché ho sofferto la sete. E ora non guardarmi così. Io sono le cose che ho sofferto, ma sono anche le mie vittorie. Sono un sopravvissuto.»
Fu a quella parola che Valerio si riscosse e sembrò vederlo per la prima volta. Era un combattente. Un vincitore. Uno che aveva già preso a calci la morte parecchie volte, che si era avvolto il destino attorno al braccio, piegandolo verso la direzione che voleva.
Fu a quella frase che la luce nei suoi occhi cambiò, e che smise di ripetere nella sua testa “posso offrirti qualcosa”. Come se si potesse offrire un caffè a un guerriero che torna vittorioso! Si dovrebbe rendere omaggio, con riconoscenza e umiltà.
Hasani invece pensò che non l’aveva ancora ringraziato; non era ancora sicuro che gli piacesse ricevere la carità, anche se in fondo gli scaldava il cuore. Forse era solo che non era abituato ai gesti gentili.
Da quel giorno divenne un rito, quel sacchetto donato con un sorriso impacciato al mattino. E in cambio, Valerio guadagnò il diritto, di tanto in tanto, tra una lezione e l’altra, di sedersi sui gradini della chiesa, e di fare domande sul paese di origine dell’ambulante, sulla guerra, su Faraa e sulle missioni. Hasani gli raccontava di tutto questo senza affondare mai il coltello, perché avrebbe potuto fare male su questo ragazzo che aveva la sua età e che della vita aveva vissuto così poco.
Era un rapporto strano che avevano i due giovani, con queste domande personali alle quali Hasani rispondeva in modo misurato, consapevole che Valerio non sarebbe mai stato un amico per davvero. Tratteneva le curiosità su di lui, come se avesse rispetto del muro immaginario che la società aveva posto tra loro per condizioni sociali e colore della pelle, e si impediva di desiderare di più.
Chiacchieravano, e andava bene così. Era molto più di quello che aveva avuto finora. Certo, più di quello che era consentito al suo paese, dove due occhi grigi come quelli non avrebbero mai osato indugiare ogni giorno con uno come lui, in pubblico.

Fu in un giorno di pioggia che il professor Calisto li raggiunse.
«Buone nuove!», gli urlò ancor prima di raggiungerlo.
Ansimava mentre gli raccontava di come era riuscito a organizzare una mostra nel museo comunale, come espositore temporaneo. Ad Hasani girò la testa e dovette sedersi.

8.
La stanza di Valerio era diversa da come se l’era immaginata. Era ordinata e alle pareti c’erano poster di architettura e design; sulle mensole costruzioni robotiche e piccole statue di legno intagliato.
Gli aveva dato l’opportunità di farsi una doccia, di radersi come si deve, con l’agio di una specchiera e di una luce quasi abbagliante. Nel vapore, la pelle cedeva al rasoio senza opporsi e ora si passava la mano sulla piega del mento, sorpreso di sentirsi così vellutato.
Nella camera, Valerio gli aveva lasciato un abito elegante sul letto e l’intimo nuovo, ancora nel cellophane. Pensò che avrebbe dovuto ripagare ogni cosa, e già si chiedeva come avrebbe potuto, mentre terminava di abbottonare i pantaloni grigi.
Un tocco leggero gli sfiorò la schiena, su quei segni che sapeva bene rendergliela irregolare e inquietante alla vista.
«Cosa sono?», chiedeva Valerio a bassa voce.
Di nuovo quel tono che traboccava di pietà.
«Sono un sopravvissuto, ricordi?»
Si voltò stringendo la mascella, e la mano chiara scivolò sulla spalla. Si fermò sul bicipite ben sagomato, in una presa pesante ma non forte. Hasani capì che voleva sentirlo, non dominarlo.
«Cosa fai?» La domanda di Hasani era sussurrata, roca perfino.
«Non lo so», ammise l’altro, «è tutto nuovo per me.» Le dita si strinsero appena sul suo bicipite. «Non so perché sento certe cose. Non lo voglio, ma…»
Hasani sospirò e chiuse gli occhi, in un ricordo che aveva imparato a farsi amico.
«Ma non puoi combatterlo. E non puoi curarlo; puoi solo accettarlo.»
Non era giusto. Non era giusto approfittare di tutta questa generosità, e non era giusto illuderlo. Non era giusto che quel ragazzo non sapesse cosa voleva, e non era giusto provare quello che provava. Ma quegli occhi grigi, che ora imploravano comprensione e perdono e rispetto e delicatezza, lo fecero capitolare. La fronte di Hasani si chinò e si appoggiò a quella bianca e tremula.
«Tu sai cosa sono», sussurrò.
«Sei un combattente.»
Hasani inspirò l’odore della sua bocca, a corto di aria.
«Sono un senza tetto. Senza patria, senza identità, senza denaro.»
Valerio negò, sfregando sulla sua fronte, in un attrito delicato e intimo.
«Tu sei le tele esposte questa notte, e sei molto altro, che vorrei scoprire. Stasera vedrò un pezzo di ciò che ti porti dentro, ma non sarà abbastanza. Voglio conoscerti. Permettimi di conoscerti.»
Hasani aveva lasciato tutto nella sua terra, inclusa la condanna a morte per persone deviate come lui era. Mai nella vita avrebbe pensato di incontrare qualcuno in grado di farlo sentire in questo modo. Pensava che a lui fosse negato, pensava fosse giusto così. Che le persone sbagliate non si dovessero incontrare mai.
Quella mano delicata gli bruciava addosso più che se fossero artigli affondati nella carne. Era solo un contatto, ma sulla pelle nuda era un invito a un dialogo molto più profondo.
«Passa il Natale con me, il pranzo di Natale», tentò Valerio, continuando a strusciare la fronte e le tempie su quella pelle spessa e simile al caffè, scura e aromatica.
«Sì? E come mi presenterai? Come un cucciolo raccolto per strada?» Si raddrizzò con un gesto brusco. «Faremo tardi.»
Valerio deglutì, gli occhi bassi.
«Aspetta, ti aiuto», e la mano scivolò verso il polso prima di staccarsi, in una carezza corposa.
Hasani lo osservò mentre prendeva la camicia sul letto e apriva i bottoni. Infilò le maniche che Valerio gli teneva aperte, facendole scivolare sulla sua pelle in una carezza silenziosa. Non aveva mai indossato niente di così morbido, prezioso. Niente che sapesse di nuovo, mai nessun tessuto appiattito dal ferro da stiro.
Il cotone bianco scivolava sulla pelle con un fruscio sommesso, nel silenzio in cui l’uno era immobile e l’altro concentrato sul suo compito e sui desideri che esprimeva con quei gesti.
Gesti composti, educati, lenti, ma pieni, abili, virili. Mani che sapevano come muoversi su questi abiti eleganti nello stile di un paese che aveva conosciuto solo in una sfumatura, priva del calore, del profumo che Valerio portava con la sua presenza. Di un Valerio che lo sorprese di nuovo.
«Ho una cosa per te.»
Uscirono di casa e camminarono fino ai musei cittadini, tra le luminarie e gli alberi decorati, i fantocci vestiti di rosso che si arrampicavano sui balconi e le musiche natalizie che uscivano dalle finestre. La pioggia tamburellava sulle loro teste, ma loro erano protetti e vicini, sotto un ombrello dal quale cadeva polvere di stelle.

9.
Hasani si sentiva una star di quelle dei cartelloni pubblicitari mentre salutava gli ospiti che non la finivano di complimentarsi per le opere esposte. Aveva avuto difficoltà a riconoscere la propria stessa arte, quando era entrato nel museo ed era stato accolto dal gorgogliare dell’acqua di un ruscello in sottofondo. I bozzetti si esibivano orgogliosi, incorniciati in strutture metalliche che, come grondaie, facevano scorrere sottili rivoli d’acqua lungo le pareti.
E lì in mezzo, le sue opere prendevano vita, raccontando di persone e di ombrelli. Di mamme e di cani e di coppie e di uomini d’affari. Di preti che allungavano una mano inzuppati, di petali che piovevano da una cupola che qualcuno aveva offerto in un gesto gentile, e di ombrelli rotti che non riuscivano a tenere asciutte gote rigate dalle lacrime.
La presenza di Calisto era stata fondamentale per districarsi tra le richieste degli acquirenti interessati, e alla fine, che ci credesse o meno, aveva raccolto una cifra che gli avrebbe permesso di mangiare e riscaldarsi per parecchio tempo. Era con questa incredulità che tornava verso casa di Valerio, a notte fonda. Ed era con gioia che Valerio aveva la sensazione di aver raggiunto qualcosa, mentre rientravano insieme. Si sentiva orgoglioso di lui; più lo guardava e più riconosceva in quel fisico alto e tonico un combattente che non si arrende, un vincitore, qualcuno da cui poter imparare.

10.
L’appartamento di Valerio non era grande, ma vi abitava da solo e questo era un lusso che pochi suoi compagni di corso potevano permettersi.
Di fianco all’ingresso, una spirale di luci colorate si accendeva a intermittenza, richiamando l’attenzione su un albero realizzato con rami secchi spruzzati di neve finta, tra il divano in pelle amaranto e una colonna su cui erano appese foto di lui con gli amici.
«Buon Natale», gli sorrise Valerio, e in un gesto impacciato si protese in quello che voleva essere un bacio ma non lo fu. Hasani lo aveva evitato scostandosi di poco, rilanciandogli uno sguardo duro.
Le dita scure tamburellarono appena sulla coscia. «Beh, è ora di togliersi le scarpette di vetro», e un sorriso si tirò sotto agli occhi seri.
«Non puoi… dico… fermarti ancora un po’?»
Fermarsi. Lui che non aveva alcun posto dove tornare. Lui che aveva uno zainetto con le cose personali e i suoi borsoni, tutto sul pavimento della camera di Valerio.
«Meglio di no. Sarebbe ancora più difficile dopo.»
Ma Valerio non era ancora pronto. Non sopportava l’idea che indossasse di nuovo quegli abiti che, accidenti, non aveva neppure pensato di lavargli nel frattempo. E non sopportava l’idea che passasse la notte all’addiaccio, al freddo, clandestino in un ambiente sporco e maleodorante.
«Resta», lo implorò, fissandolo negli occhi: lune nere perfettamente tonde in un mare bianco latte.
Hasani scosse la testa, una piccola oscillazione, come quando la vita ti offre un sogno e tu non hai il coraggio di allungare le mani. E allora Valerio sentì di nuovo quella sensazione, che sembrava pietà, ma era più vicina all’amore. Valerio lo vide nel suo timore di sperare, in tutte le gabbie che altri avevano tracciato attorno al suo essere uomo desideroso di altri uomini, nella pelle che altri avevano deciso fosse del colore sbagliato per meritare rispetto. Non vide più un guerriero, ma solo un ragazzo solo nel giorno di Natale, e si accorse di desiderarlo senza compromessi. Lui, questo suo corpo che sapeva di deserto e di leoni e di fame e di vita. E smise di negarlo.
Quando Hasani si mosse verso la camera da letto per recuperare la sua roba, Valerio lo circondò con le braccia e lo bloccò contro una parete. Premette la bocca avida sul tendine del collo, inspirando la fragranza della sua pelle e lasciò che l’istinto facesse il resto.
Una mano corse ad arpionare la mascella tesa, un dito a infilarsi tra le labbra grandi che non aveva smesso di desiderare da quando si erano visti sotto la pioggia, nella piazza, e scorreva sui denti candidi raccogliendo la sua saliva, come fosse lingua. Gli si attaccò alla spalla con l’altra mano, alitandogli nell’orecchio: «Che cosa mi fai…», e scuotendo la testa, strusciava la pelle contro quella che sapeva di caffè.
Poi si riscosse, sgranò gli occhi e indietreggiò di un passo. «Dio, che cosa sto facendo?» Si passò le mani sui capelli e le intrecciò dietro la nuca.
Hasani conteneva, in quel suo corpo immobile, respiri che non era riuscito a completare, il rullio di un bongo che gli premeva sulla cassa toracica, l’assalto di una pantera che, prepotente, esigeva di scatenarsi. Avrebbe voluto baciare quegli occhi grigi smarriti, e cullare quel viso sottile, e invece si limitò a fare un passo e accarezzargli la guancia.
Gli finì troppo vicino, il pube pericolosamente accostato al suo, e il corpo di Valerio lo avvertì, protendendosi in avanti e ricevendone in risposta un guizzo impossibile da fraintendere. E allora la terra sterzò e finì fuori strada, una forza li scaraventò uno addosso all’altro, mani e bocche aggrappate per non perdersi più, o forse per perdersi fino in fondo. I denti cozzarono per la foga con cui si cercarono l’un l’altro, e Hasani fu di nuovo premuto da quel corpo sottile e tenace, che lo reclamava per intero. Fu con un senso di liberazione che strattonò i capelli castani e passò le unghie scure sulla barba corta, e poi lo rovesciò sulla parete, chinandosi a leccargli la mascella, a mordergli il collo tenero.
«Saprai ancora guardarmi, domani, nella piazza?», gli sussurrò sulla pelle.
«Non riesco a farlo neppure ora.»
«Io sto bene, Valerio. Smettila di preoccuparti per me.»
«Io! Sono io che non sto bene, sapendoti là fuori, quando qui c’è tutto quello che…»
Due le labbra tenere inghiottirono il resto della frase.

FINE

CHI E' L'AUTRICE
Aina Sensi è lo pseudonimo con cui una donna e una mamma scrive senza inibizioni. I suoi racconti spaziano su un arcobaleno di sensazioni, dal rosa, al porpora, al nero, con l'intento di esplorare e condividere quelle esperienze, desideri, traumi che le scatenano un brivido dentro; sensazioni che inesorabilmente la rappresentano, perché anche se ambientate in un genere fantasy, fantascientifico o mitologico, non si può scrivere di qualcosa che non si è mai provato.
Aina non è altro che la sintesi di quelle briciole di amore, dolore, frustrazione, desiderio, disseminate in ogni storia; ogni racconto è autobiografico nelle emozioni che trasmette.
Di questa autrice potete leggere anche “Quel solo bacio” e “Copacabana” sul blog La Mia Biblioteca Romantica, e il Romanzo breve “L’ultima primavera di Kore”, uscito il 15 novembre scorso, un romance ambientato ai tempi delle Amazzoni.

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23 commenti:

  1. Un tripudio di emozioni, ecco cosa mi ha scatenato questo racconto. E una voglia di saperne di più. Un modo molto sottile di lasciar scoprire al lettore cosa accade, una sorpresa ad ogni riga. Molto toccante.

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  2. Questo bellissimo racconto è stato un bel regalo di Natale in anticipo di questa mattina. Ottimamente scritto, mi ha dato un brivido di tristezza nell'immancabile pensiero verso chi lascia la propria terra per venire in Italia e rischia la propria vita e quella dei propri cari, a volte, nella speranza di trovare qualcosa di migliore e invece trova indifferenza, cattiveria, razzismo.
    Un modo diverso di vedere le tante sfaccettature possibili di un "mondo" che non conosciamo e che spesso ci sforziamo di non vedere.
    Grazie
    Milly

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  3. Non è il colore della pelle che determina il valore di una persona...e mai privare un uomo della sua dignità. Si tende a giudicare senza sapere tralasciando spesso e volentieri il rispetto per l'altro. Grazie per questo racconto pieno di dolcezza, altruismo, ma soprattutto di amore. Mi è piaciuto molto. Ps. mi piacerebbe un seguito

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  4. Un racconto molto poetico, scritto veramente bene. Complimenti Aina.

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  5. Non sono una appassionata del genere ma esprimo all'autrice sinceri complimenti per la trama, il modo in cui è riportata e l'italiano in cui è scritta questa sempliece storia d'amore.
    Veramente un bell'esempio. Complimenti e auguri.
    Antonella_78

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  6. In un mondo dove si sta tornando ad essere razzisti lo leggo nei commenti dedicati a tutti gli stranieri che accogliamo,un racconto delicato,tenero,riflessivo. Mi è piaciuto molto e l'ho trovato inedito. Complimenti mi ha toccato il cuore.

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  7. Bellissimo racconto, toccante ed emozionante. Non amo molto gli M/M, ma questo mi ha toccato il cuore. Complimenti, Aina!

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  8. TROPPO Confuso e TROPPO Tirato per le lunghe !!!

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  9. Grazie a tutte per i commenti ^_^
    Buon Natale <3

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  10. Veramente bellissima e poetica l'idea degli ombrelli personalizzati. Complimenti Aina!
    Ornella Albanese

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  11. Molto bello, poetico e dolce. Complimenti all'autrice.

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  12. Non il mio genere, ma sicuramente interessante e ben scritto.

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  13. Bel racconto. Scritto bene...ed effettivamente è molto carina l'idea degli ombrelli.
    Sara

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  14. Un racconto dolce e delicato che mi ha piacevolmente sorpreso. Scritto con poesia e apparente leggerezza. Complimenti all'autrice.

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  15. l'M/M non è il mio genere preferito e non lo leggo nemmeno molto volentieri quindi parto un po' prevenuta,
    purtroppo. ho molto apprezzato però la descrizione dell'ambulante che con i suoi ombrelli trova sempre quello giusto per la persona che lo deve usare,
    questo l'ho trovato molto romantico e mi ha fatto molto piacere che l'insegnante abbia dato una mano a questo
    ragazzo sfortunato, che in un periodo come quello che stiamo vivendo è tutt'altro che scontato.
    il rapporto con Valerio invece non l'ho ben capito,
    a dire la verità, non capisco bene se c'è del sentimento oppure no. poi troppa parte introduttiva
    e poco scritto dedicato al rapporto tra i due. complimenti comunque all'autrice perchè la scrittura è molto piacevole ed appassionante.

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  16. Molto intenso e con tematiche molto importanti. Non è il mio genere ma non si può essere indifferente ad una storia così ben delineata e profonda. Mi è piaciuto molto ed leggere volentieri un seguito.

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  17. Come per altre commentatrici, io il genere M/M proprio non collimiamo, però lo stile di scrittura è veramente suggestivo!

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  18. Grazie infinite a tutte.
    Valerio avrebbe potuto essere una donna, o i due avrebbero potuto stringere una bella amicizia... ma a mio avviso il finale non avrebbe avuto lo stesso gusto ;)

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  19. Un racconto triste, ma che tratta argomenti delicati. L'uomo dalla pelle nera che vive di stenti con capacità artistiche notevoli, la presa di coscienza di essere gay, la dignità, l'amore. Brava Aina

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  20. Racconto che tratta temi molto attuali riportati con il giusto grado di delicatezza. Spero in un loro lieto fine, insieme o non.

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  21. Molto intenso, delicato e poetico. Complimenti Aina

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  22. Questo racconto mi ha appassionata. E' scritto molto bene e con delicatezza. Una piacevole sorpresa.

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