Il
pendolo nello studio batteva la mezzanotte quando Bren fece ritorno, sudato per
la corsa, i muscoli leggermente infiammati e il pelo bagnato per l’umidità che
si respirava la fuori, chiaro segnale che le notti d’estate erano finite.
Sfrecciò
per i corridoi silenziosi, ringraziando mentalmente per la moquette che
attutiva il suono delle unghie sul pavimento, così non avrebbe infastidito
Denise, nel caso fosse rientrata prima di lui.
Le
orecchie si mossero, cogliendo un respiro leggero al piano di sopra. Era
tornata. Forse si era già messa a letto, e per questo c’erano da ringraziare
gli orari d’inferno e il rischio costante della reperibilità. Bastava combinare
i due assieme e qualsiasi medico poteva dire addio alla sua vita sociale, o di
coppia, o qualsiasi altro tipo di vita potesse avere.
Non era facile, diavolo se non lo era, e se fosse stato in suo potere avrebbe
smantellato pezzo per pezzo quel mucchio di cemento e ferro che era il Boston
General Hospital. Ma poi Denise non avrebbe saputo che fare della sua vita.
Semplicemente, lei era nata per essere medico.
Farsi
un culo pazzesco in un edificio che puzzava di malattia e disinfettante, a volte
di disperazione e rabbia e impotenza di fronte ai rovesci della vita, sfidare
ogni giorno la morte a portarle via un paziente era il suo pane; ogni vita che
salvava era un calcio in culo quella puttana con la falce, un modo per
sopportare la merda che ogni giorno la vita ti getta addosso… e Bren aveva la
sensazione che ogni volta che la malattia gettava la spugna, lei si sentiva
ripagata di tutti i sacrifici che aveva compiuto, che stava compiendo e che
avrebbe compiuto.
Denise era una donna forte, una muraglia di carne, ossa e sangue che non
avrebbe mai ceduto di fronte a nulla. Piegata forse, ma mai spezzata.
Suo
padre l’avrebbe definita una guerriera, e lui non poteva che essere d’accordo.
Ma anche il guerriero più forte ha bisogno di ricaricare le pile.
Era
questo che lo preoccupava, dannazione. Da quando conosceva Denise, non l’aveva
quasi mai vista staccare veramente la spina; si riposava come tutti,
d’accordo, ma, davvero, non era sufficiente. Lei credeva di poterci riuscire,
ma Dio se si sbagliava!
Il suo naso traditore gli fece fiutare il suo odore – menta, limone e
disinfettante –, gli arrivò dritto al cervello e il suo lupo prese di nuovo il
sopravvento. Hai rimuginato abbastanza, sembrava dirgli. Al piano di
sopra c’è la tua femmina che ti sta aspettando, che vuole stringerti come tu
hai desiderato fare per tutto il giorno.
A
quel pensiero l’emozione gli strinse la gola e agguantò lo stomaco, una morsa
deliziosamente crudele, come ogni volta che pensava a lei, che fiutava il suo
odore, che avvertiva la sua presenza. Diavolo, è sempre così,
rifletté poi. Quello che sentiva per lei a volte era talmente intenso da fargli
male. Ma questo non era nulla, se paragonato a una vita intera senza di lei.
Il suo profumo riempiva ogni angolo della casa – era sua dopotutto –, ma lì
sulla porta d’ingresso era molto più carico, gli riempieva le narici fino a
raggiungere e colmare ogni angolo della sua testa, mandando in cortocircuito le
sinapsi.
Prese
un generoso respiro, riempiendosi i polmoni fino al limite e osservò la
scia invisibile proseguire verso le scale e salire al piano di sopra.
Probabilmente lei non aveva nemmeno controllato se Bren era a casa o meno: era
schizzata in camera da letto, seminando lungo il tragitto pezzi del suo abbigliamento,
come briciole di pane a indicare il sentiero.
Lui
ovviamente non ne aveva bisogno: sarebbe riuscito a trovare Denise in mezzo
alla folla di Fenway Park durante una partita dei Sox, col suo fiuto. Ci
sarebbe voluto un po’ – uno stadio pieno di gente non era proprio un gioco da
ragazzi – ma il successo era assicurato.
Oltrepassò
gli stivaletti gettati a casaccio sul pavimento, arginò un trench grigio perla
e si precipitò su per le scale, trattenendo a stento dei latrati festosi per
avvisarla che era tornato. I muscoli protestarono, ricordandogli che erano in
via di raffreddamento dopo una corsa. Non gli importava. Se si trattava di
Denise, tutto il resto perdeva di consistenza.
Sfrecciò lungo
lo stretto corridoio, le unghie scure picchiettavano tipo sassolini contro una
finestra, il cuore pompava nel petto come se gli mancasse poco a un attacco
cardiaco, il profumo della sua donna faceva contrarre tutto il suo corpo; gli tirava
i muscoli, tendeva le ossa fino allo spasmo. Non ce la faceva più ad aspettare,
l’altra sua natura voleva riprendere il controllo, lo pretendeva a gran voce.
Doveva mutare immediatamente, raggiungerla in camera da letto, farla sua.
Non
si trattava più di semplice sesso – con Denise non lo era mai stato – non
era il richiamo della bestia, del rispondere all’istinto dell’accoppiamento;
non era più nemmeno la necessità di estinguere la fame del contatto,
dell’unione con un altro corpo, del toccare e essere toccati da un altro essere
vivente. Il desiderio che aveva per Denise era come…
I muscoli e le ossa delle zampe si contrassero e Bren inciampò nelle zampe;
perse l’equilibrio e poco ci mancò che tirasse una musata sul pavimento, peggio
di un cucciolo maldestro. Un ringhio frustrato vibrò nella sua gola, dandosi
mentalmente dell’idiota mentre si dava una scrollata per rimettersi in sesto;
controllò le zampe.
Dannazione!
In
pochi secondi avevano perso la loro forma animale, raggiungendo un aspetto
ibrido tra una zampa e delle dita umane.
Non ancora, dannazione! Non ancora, non ancora, non ancora cazzo!
Strinse
con forza i denti fino a farli stridere, cercando di focalizzare – in mezzo
alla fottuta nebbia arrapata che gli saturava il cervello – la sua forma
animale. Rimanere animale o uomo non era una questione di memoria o altro – il
cambiamento era un processo naturale come mangiare e respirare – semplicemente,
in casi come quello, quando il corpo iniziava a cambiare senza che il
licantropo lo desiderasse davvero, ricordare una delle proprie nature poteva
aiutare, soprattutto se ti facevi prendere dal panico ritrovandoti con una
zampa ricoperta di pelo al posto di quattro dita e un pollice opponibile.
Non
voleva rimanere lupo ancora per molto, al momento cercava solo di non
raggiungere la sua donna in camera da letto mentre era un ibrido confuso tra un
canis lupus e un homo sapiens perché non era riuscito a mutare
completamente in nessuna delle due forme.
Sì,
questo sarebbe stato davvero figo, evitare che Denise scappasse di casa urlando
in preda all’isteria perché il suo uomo aveva una fottuta coda pelosa là dove
non avrebbe dovuto esserci niente.
Intendiamoci,
lei sapeva della sua natura e tutto il resto, sapeva che in certe notti si
metteva a quattro zampe, la sua pelle umana si rivoltava come un calzino,
tirando fuori una folta pelliccia di lupo come se fosse stato un trucco di
magia, sapeva che faceva parte di un branco e gli piaceva andare a caccia di
selvaggina… una cosa però è sapere, tutt’altra faccenda è vedere.
Certo,
Denise era una donna maledettamente stoica – a volte gli faceva quasi paura –
se anche Bren in un momento di distrazione le avesse mostrato la coda, di
sicuro lei non avrebbe finito col dare di matto... ma probabilmente non avrebbe
nemmeno avuto una reazione del tipo: «Oh, che figata la tua coda! Okay, mio bel
stallone peloso, adesso salta sul letto e fammi vedere come la usi!»
Un brivido gli increspò il pelo della schiena, lasciandoli una sensazione
come se qualcuno avesse appena calpestato la sua tomba. Non era un pensiero in
cui amava crogiolarsi, quello. Preferiva tenere occhi e orecchie perennemente
sul chi vive e tenere Denise il più lontano possibile da quella roba.
Se Denise mi vedesse mentre sto cambiando, anche solo per un secondo…
Scosse
la testa con violenza, scacciando a forza quei pensieri molesti e deprimenti e
riprese ad avanzare per il corridoio. Superò la camera da letto, muovendosi il
più leggermente possibile, oltrepassò il bagno – chiuso, dannazione – e sgattaiolò
nello studio, ringraziando Denise per essersi dimenticata di chiudere la porta.
Dimensioni dignitose, per non dire esagerate, visto che non veniva mai usato,
arredamento essenziale. La parete di oriente era occupata da una grossa vetrata
dalla quale, ora, filtravano i raggi sfumati di bianco, blu e argento della
luna piena.
Bren
non era un architetto o roba simile, ma per lui quella stanza come studio era
uno spreco. Qualsiasi bostoniano avrebbe venduto l’anima al diavolo per una
stanza spaziosa, luminosa e con una visuale che non comprendesse tonnellate di
cemento, asfalto e ferro; Denise invece, testona com’era, preferiva quella
attuale, affacciata sulla camera degli ospiti dei suoi vicini di casa. Ah, le
donne!
Un crampo improvviso alle zampe posteriori gli strappò un guaito, a
metà tra la sorpresa e il dolore, ricordandogli che non si trovava nello
studio per speculare sulle scelte edilizie della sua compagna.
Tornò a
concentrarsi su quello che stava succedendo all’interno del suo corpo, ripescando
negli archivi della sua memoria di lupo l’aspetto di un essere umano. Postura
eretta, peso appoggiato unicamente sulle gambe, braccia, mani. Mani che
afferravano, stringevano, tenevano stretto…
La
sua mente corse a Denise che lo aspettava a letto, vestita solo di un paio di
boxer attillati e una maglietta, i capelli castani sciolti lungo le spalle, e
poi le sue gambe lunghe e aggraziate come quelle di un corridore; se la
immaginò stesa sul letto i muscoli dei polpacci e delle cosce in perfetta tensione,
mentre si inarcava dolcemente con un movimento ondulatorio fin troppo
esplicito, le dita affusolate che accarezzavano la pelle velata di sudore,
leggermente arrossata in un principio di eccitazione mentre accarezzava,
toccava il proprio corpo. Con gli occhi della mente fissò sconvolto le gambe di
Denise aprirsi in un invito, le cosce tornite bagnate dei suoi umori lucidi e
vischiosi…
Ah,
Cristo, lo sentiva. Sentiva addosso il calore dell’eccitazione di Denise come
se gli fosse stata davanti, poteva quasi sentirne l’odore, il suo sapore
tormentargli la lingua, quella fragranza così perfetta, così giusta, così sua.
La potenza dell’immaginazione è fin troppo sottovalutata, al giorno d’oggi,
pensò, mentre un brontolio di desiderio vibrava all’interno della sua gola.
I muscoli e i legamenti si tesero al massimo, strappandogli un altro rantolo.
Dannazione, ogni volta sembrava che il suo corpo dovesse spezzarsi come legno.
Era un licantropo, okay, ma diavolo, che il suo corpo fosse quello di un uomo o
di un lupo, aveva comunque i suoi limiti – che si chiamavano ossa e muscoli –
non era di gomma!
Si
accucciò come poté sul pavimento, smise di arginare il dolore e
quella dannata sensazione di prurito che sentiva in tutto il corpo; si
concentrò invece sul rumore delle ossa che stavano per spezzarsi, sulla
tensione che percepiva in ogni sua singola fibra, ogni cellula come se fosse
sul punto di esplodere o strapparsi. Dolore, dolore e cazzo, ancora dolore!
E
poi la sensazione del corpo che si assestava in una forma completamente
diversa, conosciuta e allo stesso tempo aliena, come se non riuscisse a
riconoscere il proprio corpo.
Era finita.
Mosse
alla cieca quelle che fino a poco prima erano zampe, sentì le dita piegarsi
ubbidienti e accarezzare le dolci venature del parquet, la sua vista era
tornata debole, sentiva di avere braccia e gambe, e l’iniziale sensazione di
freddo gli disse che la pelliccia per quella notte se n’era andata.
E
invece di rimpicciolire, a contatto con quell’aria pungente, nascondendosi nel
nido color cannella dei suoi peli pubici, Bren sentì il suo uccello irrigidirsi
e impennarsi contro lo stomaco. Tutto normale, dunque.
Aspettò qualche altro minuto in posizione prona, in attesa che le forze
tornassero e gli permettessero di mettersi in piedi senza cadere di culo subito
dopo, perché le gambe non riuscivano a sostenere il suo peso. Quando
decise di alzarsi, si mosse con cautela; le gambe tremavano un po’ e ritrovarsi
improvvisamente dritto su di esse gli fece girare la testa per qualche secondo,
ma era sopportabile. Prese una generosa boccata d’aria e di nuovo il profumo di
Denise gli mandò il cervello in cortocircuito. L’erezione gli schiaffeggiò lo
stomaco, quasi avesse voluto chiedergli che diavolo stesse aspettando. Considerò
per un istante come avrebbe reagito lei, magari mezzo addormentata, alla vista
del suo pene dritto come l’asta di una bandiera; una lucida lacrima di
desiderio spuntò dalla fessura umida, ricordandogli per un secondo –
stranamente – un marmocchio che fa i capricci. Be’, cavolo, più eloquente di
così!
Un altro respiro, e poi uscì dallo studio.
Denise
aveva lasciato la porta socchiusa, perciò quando entrò non fece molto casino,
solo il debole cigolio dei cardini, messi a dura prova dall’umidità autunnale.
Sbirciò all’interno della camera.
«Deniiise» sussurrò dolcemente, rigirandosi il nome sulla lingua come
se fosse stato una caramella.
Gli
rispose il silenzio. Fosse stato umano avrebbe dato per scontato che stesse
dormendo, ma il suo udito registrò un respiro leggero e veloce, riempire il
silenzio della stanza. Denise era sveglia.
«Denise, sono tornato» ripeté, questa volta aprendo completamente la porta ed
entrando dentro.
I
suoi piedi nudi scivolavano leggeri e privi di rumore sul pavimento, mentre con
cautela si avvicinava al letto.
«Denise? Sei lì sul letto? Mi dispiace ma, diavolo, non vedo niente senza
occhiali e, ehm, non ricordo dove li ho lasciati…»
Le
parole gli morirono in gola, intrappolate da un groppo doloroso. L’aria che si
respirava nella stanza era pesante, come se un velo nero l’avvolgesse tutta. Un
odore umido, come di muffa, gli riempì le narici, disgustandolo; somigliava al
lezzo che prende la terra dopo giorni ininterrotti di pioggia. E quell’odore
era mischiato a quello di Denise. Quell’odore emanava da
lei.
Maledizione, che diavolo è successo?
Un
blocco di ghiaccio sedimentò nel suo stomaco, un brivido di paura
serpeggiò impietoso lungo la spina dorsale. Raggiunse a tentoni il letto a due
piazze, continuando a chiamarla sottovoce, con un principio di disperazione,
chiedendosi perché diavolo non gli rispondesse, non gli dicesse che era tutto
okay, o che invece no, stava da schifo, ma cazzo, qualcosa doveva rispondere!
Perché invece non lo faceva?
Strinse al massimo quei suoi occhi inutili e finalmente riuscì a
distinguere la sua figura distesa sul fianco, in posizione fetale, dalla parte
opposta del letto. A tentoni cercò l’abat-jour e tastò alla cieca fino a che
non sentì il clic dell’interruttore. La stanza piombò nell’oscurità.
La
sua vista faceva pena, ma i suoi occhi si rifiutavano proprio di collaborare se
c’era di mezzo una qualsiasi fonte di illuminazione – a meno che non avesse gli
occhiali –, la situazione però migliorava, un po’, col buio: da macchie di
colore confuse e senza forma, arrivava a distinguere persone e oggetti, anche
se rimanevano sfocati.
Quello che si ritrovò davanti agli occhi, però, rischiò di spezzargli il
cuore. No, non era una stupida frase fatta del cazzo, Bren sentì davvero il suo
cuore incrinarsi; era lo stesso crac secco di una superficie di vetro
che si crepa, e la sensazione che gli colpì il petto era la stessa che si ha
quando il mondo ti crolla addosso. Ne più ne meno. E Denise… dio, Denise!
Con
le gambe strette al petto la sua mostruosa statura sembrava come annullarsi, i
suoi occhi del colore delle castagne erano serrati peggio di una saracinesca,
il resto del viso seppellito nel cuscino che stringeva – o stritolava – tra le
braccia come se fosse stato una boa in un mare in tempesta. L’aria autorevole e
vagamente intimidatoria che la contraddistingueva sembrava evaporata. Adesso
rimaneva solo una donna raccolta su stessa, rigida e spenta; assente.
Ah, Cristo, amore, che accidenti è successo? Il groppo che gli serrava
la gola si fece ancora più stretto, e Bren sentì le lacrime bruciargli gli
occhi.
Lentamente
si stese sulla parte del letto rimasta vuota, e quando posò la testa sul
cuscino, uno sbuffo di menta e limone si sollevò da esso. Guardò di nuovo lei.
A Denise non piaceva il lato sinistro del letto, lo aveva sempre lasciato per
lui.
«Nisi.»
Bren
odiava quel nomignolo. Quello stronzo del suo ex la chiamava così, come se
fosse stata un cucciolo scodinzolante di Welsh Corgi. Imbecille.
Ancora nessuna risposta.
Bren
deglutì una decina di volte, cercando di cancellare lo schifoso sapore che
sentiva sulla lingua. Lentamente distese un braccio, annullando la distanza che
lo separava da lei. Voleva toccarla, cancellare dalla sua pelle l’odore della
disperazione con il proprio corpo, farle dimenticare quello che la stava
assillando. Voleva la sua Denise.
Le sue dita sfiorarono il palmo della sua mano e Denise sussultò, irrigidendosi
all’improvviso. Gli occhi si aprirono di scatto, dilatati e spauriti, e per
qualche istante lo fissarono come se lo stesse vedendo per la prima volta. Bren
scivolò più vicino, cancellando definitivamente la distanza che li separava,
cercò di conformarsi alla sua posizione, anche se a fatica, visto che lui
raggiungeva a malapena il metro e settanta. Con delicatezza le tolse alcune
ciocche di capelli dal viso e poi le carezzò la guancia. Denise batté le
palpebre, e finalmente sembrò riconoscerlo. Bren sorrise, sentendosi di nuovo
sull’orlo delle lacrime.
«Ehi», le mormorò dolcemente, sentendosi una femminuccia lacrimosa. Dalla
guancia scivolò leggermente lungo la spalla, percorrendo la linea armoniosa e
tornita del braccio.
«Bren?» esclamò confusa, e lui pensò che non ci fosse niente di più bello della
sua voce, dopo tutto quel silenzio.
Cercò di
non tirare su col naso come un imbecille, si limitò a sorridere, sentendo
però ogni suo muscolo facciale come sul punto di strapparsi. Si fece
ancora più vicino, senza smettere di guardarla negli occhi un solo secondo, per
paura che Denise potesse andarsene di nuovo.
«Bren.»
Sì. Non smettere. Continua a chiamare il mio nome.
Lentamente
prese il cuscino che Denise stringeva tra le braccia; non fece resistenza,
perciò lo gettò sul pavimento. Non dovevano esserci ostacoli quando la
stringeva tra le braccia. Solo la loro pelle che si toccava, il battito dei
cuori che si uniformava. Nient’altro.
Dovrò iniziare a pensare seriamente di cambiarmi nome. Brenda, magari, pensò oziosamente
per un istante mentre, con movimenti timidi e impacciati, cercava di
abbracciarla.
Dopo
qualche tentativo riuscì a infilare un ginocchio in mezzo alle sue gambe,
fino a far combaciare i loro bacini, le avvolse entrambe le braccia attorno
alla schiena e alla fine infilò la testa nell’incavo del suo collo, premendo il
naso sotto il suo orecchio, inalò un respiro tremulo del suo profumo,
sentendosi sprofondare sempre di più, poco per volta.
Denise
sospirò e il suo fiato caldo gli fece venire la pelle d’oca. Il cuore
perse un colpo, letteralmente, quando lei ricambiò l’abbraccio,
incastrandosi poi alla perfezione con lui, quasi avesse voluto stargli più
vicino, mentre il suo respiro gli accarezzava la nuca.
Bren emise un uggiolio estasiato – e involontario – quando le labbra di Denise
lo baciarono sulla spalla; un tocco soffice, leggermente umido, che gli marchiò
a fuoco la pelle.
Una
sua mano scivolò lungo il suo fianco snello, ne seguì i contorni,
memorizzandone la forma, saggiandone la consistenza, fino a raggiungere la
curva del ginocchio. La sfiorò con delicatezza e Denise buttò fuori un sospiro
misto a un gemito, il suo desiderio fiorì come una rosa, stordendolo. Il suo
lupo ululò la sua eccitazione e frustrazione. Il profumo dell’eccitazione di
Denise era qualcosa per cui sarebbe valsa la pena uccidere.
Bren
chiuse gli occhi, combattuto tra il desiderio sgonfiare quell’erezione il prima
possibile e la necessità di far durare quel momento per tutta la notte, se ci
riusciva.
Le mani di Denise volarono su di lui, accarezzandolo dapprima come petali
delicati, poi, quando iniziò a disegnare il contorno della spina dorsale con le
unghie, lui si tese tutto, sentendo la sommità del suo pene piangere per lei, smaniare
per sentire le sue mani, sentire lei.
«Bren.»
Il
suono della sua voce gli dava alla testa, lo ubriacava più del liquore
speciale di suo padre.
«Mmmm?»
Strofinò il
naso contro la curva del suo collo e iniziò a mordicchiarle giocosamente
il collo. Piccoli brividi attraversarono tutto il suo corpo, lasciandola senza
fiato. Sospirò di nuovo, lui continuò a lavorare con i denti affilati, senza
stringere.
Una delle mani di lei scivolò lungo il suo fianco, gli accarezzò la coscia
dura, velata da una leggera peluria cannella, e trovò rifugio in mezzo alle sue
gambe. Strinse l’erezione nel palmo, con forza. Bren risucchiò tutta l’aria che
aveva nei polmoni, strinse i denti fino a sentirli scricchiolare. Cristo, non
poteva venire subito, così, come un idiota!
«Sei duro» mormorò lei contro il suo orecchio, la voce leggermente
roca per il desiderio.
Strinse
ancora una volta l’uccello, poi, chiudendo la mano a pugno, iniziò a pompare la
sua erezione come uno stantuffo. Lentamente, tormentosamente.
«Oh, Dio… Deni…»
Denise
non era timida. Quando lo toccava con le mani, con la bocca, lo faceva senza
esitare, non chiedeva, semplicemente si lasciava guidare dall’istinto del
momento – come faceva lui. Era un’amante disinvolta che sapeva quello che
voleva e non aveva paura, per vergogna o un eccesso di pudore, di mostrargli
cosa le piaceva. Era spontanea e sincera sui propri desideri. E lui l’adorava.
L’amava.
Bren cercò di ruotare i fianchi per assecondare i movimenti della sua mano, ma
farsi fare una sega in quella posizione non era il massimo. Chiuse gli occhi e
prese generose boccate d’aria, nella speranza che almeno qualche molecola di
ossigeno raggiungesse il cervello, che in quel momento probabilmente
galleggiava senza peso in una fottutissima nebbia rossa, completamente andato.
Sciolse
l’abbraccio in cui aveva continuato a tenerla fino a quel momento e la guardò
negli occhi, aspettandosi che i suoi occhi colo castagna incontrassero i suoi,
ma Denise non lo guardò. Era concentrata sul movimento della sua mano sul suo
pene. Troppo concentrata, in effetti.
«Denise, vacci piano…» la voce gli morì in gola, soffocata da un gemito, quando
il suo pollice iniziò a frizionargli la punta umida e appiccicosa.
Gettò la
testa all’indietro, seppellendo un ringhio tra i denti digrignati. Porca
puttana, non si era mai sentito così vicino dal mettersi a ululare. In forma
umana.
«Denise, vai più piano» cercò di ripetere, dopo una breve
schiarita alla mente. Se avesse continuato pompare a quel modo si sarebbe
ritrovata il suo sperma sulla mano nel giro di cinque minuti. Forse due, se si
impegnava di più.
«Deni…»
Lei gli tappò la bocca con un bacio. Un bacio che non sembrava volerlo
solo zittire. La lingua di lei, imperiosa e vorace, saccheggiò l’interno della
sua bocca come se fosse stato un assedio, attirò la lingua di Bren all’interno
della propria bocca e la succhiò come se fosse stato un frutto maturo.
Lui
sentì distintamente il proprio autocontrollo andare in pezzi, frantumarsi
in mille schegge luminose, mentre Denise continuava a prenderlo d’assedio. Ah,
Dio, ecco un’altra cosa per cui varrebbe la pena uccidere!
Denise interruppe
bruscamente il bacio e con una manata lo fece rotolare a pancia in su e gli si
mise a cavalcioni, serrandogli i fianchi in mezzo alle proprie cosce.
«Non voglio andare piano.»
Bren
sentì nella sua voce una nota dura, ma anche una sfumatura d’urgenza in
essa; come
Uno scatto repentino delle braccia, e la sua canottiera volò sul pavimento
assieme al cuscino. I suoi seni, tondi e invitanti, erano gonfi per il
desiderio e i capezzoli, duri come perle rosate, sembravano implorare la mano
di un uomo, o la sua bocca.
Denise
mosse i fianchi e il suo pene bagnato si ritrovò sotto il suo sedere perfetto,
ancora protetto dai boxer attillati. Una mano di lei corse fino alla sua spalla
e la strizzò, come se avesse voluto tenerlo fermo e con un movimento appena
impacciato si puntellò sopra si lui, facendo forza sui muscoli di coscia e
gambe; i suoi occhi sembravano bruciare, tanta era la forza con cui lo stava
guardando. Ma c’era qualcosa che non andava in essa. Sembrava… sbagliata.
La mano rimasta libera scivolò all’attaccatura delle gambe e con uno scatto
nervoso spostò il tessuto, rivelando un tappettino di ricci scuri, lucidi dei
suoi umori.
«Voglio scoparti fino a non poterne più.»
Detto
questo, prese una generosa boccata d’aria e si calò bruscamente sulla sua
erezione. Denise chiuse gli occhi e lanciò un piccolo grido di dolore, Bren
trattenne bruscamente il respiro, digrignando i denti. Cristo, per quanto
eccitata, la sua vagina non era lubrificata a sufficienza, e il corpo di
entrambi sembrava ribellarsi a quell’intrusione. A ogni centimetro che Denise
cercava di guadagnare, Bren aveva come la sensazione di incastrarsi dentro un
tubo sempre più stretto. Come infilarsi al dito, con la forza, un anello che
non era della tua misura.
«Gesù…» Denise imprecò a mezza voce, le narici dilatate dai suoi respiri
veloci, mentre i suoi fianchi continuavano a muoversi.
Bren
digrignò i denti, reprimendo un ringhio. «Smettila, Denise.
Perché diavolo lo stai facendo…?»
Gli
occhi di lei si puntarono nei suoi, e per un attimo gli sembrò gli sembrarono
smarriti, completamente persi. Finì anche troppo in fretta, e irrigidendo la
mascella per lo sforzo, Denise si concentrò sul proprio piacere.
Sono una stronza, pensò Denise, forse per la milionesima volta, da
quando aveva iniziato a scopare Bren. Una stronza. Stronza.
Stronzastronzastronzastronzastronzastronza…
Non
avrebbe dovuto comportarsi come si stava comportando, non voleva
comportarsi così, eppure eccola lì che cercava di avere un rapporto sessuale
col suo compagno, forzando la mano su quello che, probabilmente, sarebbe
accaduto lo stesso nel giro di una mezz’ora al massimo, seguendo il naturale
percorso.
Lei però non aveva voluto aspettare. No, porca puttana. Sentiva che se non
si faceva impalare da Bren nel giro di pochi secondi sarebbe scoppiata, e non
per il desiderio frustrato.
Ovviamente
c’era anche quello, ma non era quello che aveva mosso i suoi fili, che l’aveva
spinta ad agire come stava facendo. Praticamente stava stuprando l’uomo che
amava, e non riusciva a rammaricarsene. Non in quel momento.
Non ne andava fiera, ma questo era giusto. Ogni volta che muoveva i
fianchi o li ruotava, Denise si sentiva riempire dalla sua erezione, e i suoi
muscoli interni, in risposta, si inumidivano un po’ di più per adattarsi
all’intruso, sempre benvenuto.
«Ah, Dio… Deni, sei così stretta…» Bren gemette, i canini affilati e minacciosi
in bella mostra. Le mani di lui scattarono in avanti come una frusta e
afferrarono saldamente le sue ginocchia, aiutandola a sistemarsi meglio
sull’erezione.
Inspirò con forza, sentendo le tempie imperlarsi di sudore, il cuore
accelerare i battiti, riverberando i suoi colpi martellanti anche in mezzo alle
gambe, dove il suo corpo era unito a quello di Brennan.
Piantò le
mani ai lati delle sue spalle e si sollevò. La frizione dei loro corpi fu come
una scossa elettrica, Denise sentì un fuoco liquido propagarsi dal basso verso
l’alto, avvolse il suo cervello in una coltre di elio, dandole un senso di
leggerezza. Ecco, stava funzionando!
Scivolò giù sulla
sua erezione, si sollevò di nuovo, poi di nuovo giù, a ogni spinta il suo
corpo si riempiva di calore, ricoprendo il pene di Bren dei suoi umori vischiosi.
Lo montò con sicurezza, dimenando i fianchi con una frenesia che avrebbe
potuto essere quella di un cane in calore; incurante del piacere del compagno,
prese da lui tutto quello poteva, i suoi muscoli interni, tesi ed eccitati, stringevano
l’uccello di lui in una morsa soffocante.
Lo
sentì inspirare con forza, ma non se ne preoccupò. Non le importava se era
infastidito, se non gli piaceva come lo stava montando, o se invece era sul
punto di venire. Lei lo voleva. Voleva un dannato orgasmo con tutta se
stessa, voleva sentire la sua vagina contrarsi in preda agli spasmi, voleva
scacciare dal suo corpo tutta quella frustrazione, quello schifoso senso di
impotenza che, peggio di un tumore, la stava consumando dall’interno,
soffocandola, uccidendola lentamente.
E
poi, poi voleva farla pagare a quell’uomo sotto di lei, dentro di lei.
Quel bastardo, che era divenuto così caro e indispensabile nella sua vita.
Quello stupido che si era fissato con una come lei.
Bren sotto di lei sgroppò all’improvviso, il suo uccello scattò
bruscamente verso l’alto, e Denise lo sentì fino all’osso pubico. Gettò la
testa all’indietro, mentre un gemito le usciva di gola. Ecco, non mancava
molto, ormai. Aprì gli occhi e lo guardò.
Non era la prima volta che Bren si lasciava sottomettere da lei, che le
permetteva di guidare il gioco secondo le proprie regole. Ma vederlo ora…
vedere quegli occhi chiari, socchiusi, mentre indugiavano sul suo viso,
spostandosi poi avidamente sui seni, fino a raggiungere il punto dove lei lo
stava scopando con foga. Dio, era…
Si morse con forza il labbro inferiore, fino a sentire il sapore del sangue,
poi chiuse di nuovo gli occhi, escludendolo, scacciando quello sguardo
adorante. Non c’era altro modo. Non sarebbe riuscita a venire se avesse
continuato a guardarlo. Era troppo vicina al collasso, troppo vicina alle
lacrime, e vedere Bren così era stata la proverbiale goccia che fa traboccare
il vaso. Ecco, gli occhi avevano già iniziato a pizzicare, dannazione.
Una delle sue mani smise di stringerle le ginocchia e raggiunse il punto
d’unione dei loro corpi, e senza perdere tempo iniziò a tormentarle il
clitoride, duro e infiammato dall’eccitazione. I muscoli di Denise si strinsero
in risposta sul suo pene ed entrambi buttarono fuori il respiro in un sibilo.
Tornò a
guardarlo negli occhi, rivolgendogli una muta domanda, ma l’attenzione di Bren
era tutta concentrata nel farla venire. Oddio, come ho potuto…
Bren
diete un’altra, potente sgroppata e le sue dita pizzicarono con forza il
clitoride. Denise venne all’improvviso. Con un’esplosione sconvolgente il
piacere la travolse come un’onda anomala, lasciandola senza fiato. Non vedeva
più niente, non sentiva più niente, nemmeno il battito del suo cuore, che fino
a pochi secondi fa sembrava un tamburo impazzito. L’unica cosa che riuscì a
sentire, fu il calore umido di una lacrima che rotolava dall’occhio, mentre il
suo corpo esausto crollava sopra Bren.
Rimase distesa su di lui, il viso affondato nel collo imperlato di sudore,
mentre il suo corpo veniva scosso dagli ultimi brividi dell’orgasmo. Via via
che il respiro rallentava e tornava cosciente di sé e del proprio corpo, Denise
si accorse che Bren le accarezzava la schiena, mentre la sua bocca intervallava
baci delicati sul collo e la spalla e parole d’amore all’orecchio.
La vergogna e il disgusto per se stessa le fecero venire le lacrime agli occhi.
Di nuovo.
Dannazione,
ma che diavolo le era venuto in mente? Usare così Bren, scaricare su di lui la
propria frustrazione, i dolori e i problemi che avevano minacciato di
soffocarla. Bren era l’unico con cui pensava di poterne parlarne, con cui
sfogarsi… invece lo aveva trattato come un giocattolo erotico. Si era persino
rifiutata di guardarlo negli occhi mentre veniva.
«Scusami, Bren. Io… davvero, non so che accidenti mi sia preso…»
Fece per scivolare fuori da lui, ma invece di sentire un muscolo morbido e
rilassato, Denise sentì una grossa sbarra dura e rovente. Non era nemmeno
venuto, dannazione.
Era un disastro su tutta la linea. Tutto era un disastro.
Bren la tenne ferma con le ginocchia. «Non mi hai fatto niente, Denise.»
Lo
guardò e sentì di nuovo un groppo alla gola. Inspirò con forza e si
tolse i capelli arruffati dal viso. «È quello che dicono tutti gli uomini, dopo
che sono appena stati violentati?»
Bren
fece una smorfia che le fece pensare a un sorriso.
«Ero più che consenziente, fidati. Anzi, credo che sia colpa mia. Sono un
provocatore di natura. Non hai potuto resistere.» Si mosse appena e la sua
erezione sobbalzò dentro di lei, togliendole il fiato. «Va tutto bene Denise,
davvero. Adesso però vieni qui. Ho voglia di baciarti.»
«Come fai a sopportare di avermi vicino, dopo questo? Dopo quello che ti ho
fatto passare?»
Anche
in passato gliene aveva fatte passare di cotte e di crude, ma Bren non le aveva
mai voltato le spalle. Aveva sopportato e continuato a rimanerle vicino,
dimostrando una pazienza titanica.
«Perché ci ho messo sei fottuti mesi per averti, perciò col cazzo che ti
lascio andare!» sbottò furioso, fulminandola con quei suoi occhi magnetici, una
strana combinazione di verde e giallo.
Bren l’afferrò per il polsi e l’attirò verso la sua bocca. Quando le loro
labbra si incontrarono, le sue mani iniziarono a scorrere su tutto il corpo di
Denise, stringendola forte, come se davvero non volesse lasciarla andare. Come
se temesse che qualcosa potesse portarla via.
«Sei l’amore della mia vita, Denise, sei la parte che mi mancava per sentirmi
completo» mormorò lui contro le sue labbra. «Non potrei sopportare di perderti.
Il solo pensiero mi uccide.»
Anch’io non potrei sopportarlo, pensò con disperazione, mentre lui
succhiava la sua lingua con pigra avidità. Lui era un coccolone per natura,
preferiva sempre andare lento, prendersi il suo tempo.
Se Bren sparisse dalla mia vita non mi resterebbe più niente.
Bren
interruppe il bacio e si scostò da lei quel tanto che bastava per riuscire
a parlare. Aveva il fiato corto e gli occhi brillavano di una luce febbrile.
Animalesca.
«Guardami, Denise. Non distogliere più lo sguardo.»
Bren
cominciò a muovere i fianchi su e giù, entrando e uscendo da lei,
tenendola stretta per i fianchi ne guidava il movimento circolare,
frizionandola pigramente. Denise si sentì sciogliere. Una lingua di fuoco si
era riaccesa al centro del suo corpo, ed alimentata dalle stoccate leggere e
pigre di Bren.
Lei
ansimò e serrò le cosce con forza. Lui emise un ringhio soffocato che
le fece venire i brividi lungo la schiena.
All’improvviso con un movimento repentino la fece rotolare di schiena e le
montò sopra come un lupo affamato, le sollevò le cosce fino ad appoggiarsele
sulle spalle e con un rapido colpo si spinse di nuovo dentro di lei, affondando
sempre di più. Denise ansimò senza fiato e artigliò le coperte sgualcite. Un
suono rauco le uscì di gola, mentre lui continuava a entrare e uscire dal suo
corpo, tormentandola.
«Baciami ancora.»
Voleva sentire il sapore delle sue labbra, voleva sentire la sua lingua che la
soffocava, la sua saliva entrare dentro di lei e confondersi con la propria.
Bren
affondò nella sua bocca e Denise per poco non venne di nuovo. La sua
lingua, ruvida e bagnata lambiva e massaggiava l’interno nella sua bocca come
il suo pene dilatava e massaggiava i suoi muscoli interni.
«Non mi spezzo facilmente» le disse con voce rauca, mentre continuava ad
affondare nel suo corpo. «Posso sopportare questo e altro, perché sei mia.»
Le dita di lui vagarono sul suo corpo fino a raggiungere i seni. Li strinse tra
le mani, li toccò con reverenza, e si attaccò al capezzolo come un bambino
affamato. Denise si inarcò, sgroppò sotto di lui. L’odore muschiato e
penetrante del corpo di Bren si intensificò mano a mano che raggiungeva il
limite, Denise non sentiva altro che lui, il calore della sua pelle sudata, il
suo odore, il suo sapore sulla lingua.
Nell’attimo supremo gridò il suo nome, e Denise lo seguì, aggrappandosi a lui
come se temesse di venire spazzata via. Il suo seme caldo la riempì fino
all’orlo, mentre i loro corpi venivano scossi dai tremiti dell’orgasmo.
Alla fine, Bren rotolò sul fianco assieme a lei. L’avvicinò al suo petto,
così vicino che Denise sentiva battere il suo cuore. Un battito profondo e
rassicurante.
«Sei una donna forte Denise, sei la mia guerriera, la mia ancora di salvezza. E
io voglio essere la tua roccia. Voglio impedirti di venire trascinata via dalla
tempesta.» Le baciò una tempia umida di sudore.
Denise sentì l’impulso di nascondersi nel cerchio delle sue braccia, di vuotare
il sacco e dirgli tutto, di raccontargli come si fosse sentita quel pomeriggio,
in sala operatoria, mentre la vita di quella donna si spegneva tra le sue mani.
Era
anziana e soffriva di embolia polmonare, ma avendo influenzato solo i rami
secondari delle arterie aveva sentito di potercela fare. Diavolo, si era
sentita imbattibile, sbagliare era impossibile.
E quella donna era morta sotto i ferri. Una crisi respiratoria. A stento era
riuscita a completare l’incisione del bisturi. A stento era riuscita a reagire,
a capire cosa stesse succedendo.
La morte non è un’estranea nei corridoi di un ospedale.
Ogni
giorno un medico deve convivere col fatto che prima o poi un suo paziente
morirà: forse a causa di un suo errore, o forse perché la malattia non è stata
curata per tempo.
Ognuno
ha dei fantasmi con cui convivere, e Denise oggi aveva aggiunto un nuovo nome
nella sua lista.
La morte di quella donna pesava sul suo spirito come una gettata di cemento a
presa rapida, ma non era quello che la stava divorando. Era la morte a
spaventarla.
Sollevò debolmente la testa dal petto di Bren, e quello che vide nei suoi
occhi le gelò il sangue. Convivere col senso di colpa e l’impotenza di
aver perso un paziente non è facile, ma perdere la persona che si ama? Se
avesse perso un braccio sarebbe stato un dolore paragonabile? se si fosse
svegliata la mattina senza trovare la testa bionda di Bren sul cuscino, se non
avesse più sentito il suo odore sulle lenzuola, o avesse udito la sua voce
canticchiare delle vecchie canzoni mentre preparava la colazione, cosa avrebbe
provato?
Un fiotto di lacrime amare le riempì gli angoli degli occhi.
Eccoti
servita, pensò
ironicamente, mentre nascondeva il viso contro il petto di Bren. Se perdo
lui perdo tutto. Non ci sarebbe più stata vita, per lei. Avrebbe
semplicemente continuato a fare quello che faceva prima del suo arrivo, ma si
sarebbe trattato di esistere.
Senza di lui, nessuna vita valeva la pena di essere vissuta. Dio, si sentiva
così… fragile, persa, in quel momento!
Denise in quel momento si rese conto di non aver mai parlato con lui di queste
cose. Quello che aveva accumulato era una specie di vaso di Pandora che nemmeno
lei era curiosa di aprire. Quello che c’era la dentro era tutto ciò che più
detestava di sé.
Una Denise che aveva paura di andare al lavoro, che temeva di uccidere
accidentalmente un altro paziente, una Denise spaventata da quello che sentiva
per l’uomo che stringeva tra le braccia. Una Denise spaventata dalla vita e i
suoi continui imprevisti. Una Denise che si lasciava trasportare dai marosi
della tempesta, invece di affrontarli di petto.
Bren non aveva mai conosciuto quella parte di lei. E questa forse era la sua
paura più grande.
Doveva
dirglielo. Sapeva di doverlo fare, glielo doveva, in un certo senso… tuttavia,
nonostante fosse consapevole di questo a livelli quasi ridicoli, c’erano cose
che non era in grado di esprimere ad alta voce. Nemmeno se si trattava di Bren.
Patetica. Debole. Vigliacca.
Aveva ragione. Dio se aveva ragione.
Con
delicatezza, le dita di Bren si infilarono tra i suoi capelli annodati, le
strinse amorevolmente la nuca, spingendola a guardarlo negli occhi. Denise non
aveva mai visto i suoi occhi così seri.
«Non devi avere paura dei momenti di debolezza, di sentirti perduta, perché
fanno parte della vita» deglutì un attimo, e lei sentì i battiti del suo cuore
accelerare.
«Vorrei solo che ti fidassi di me, che ti sentissi sicura di potermi confidare
qualsiasi cosa: le cose belle, le cose brutte, tutto quanto. Non rifiuterei
niente di quello mi offriresti, perché sarebbe tuo. Saresti tu, Denise.
Sarebbe un’altra parte di te.»
Non posso farlo. Non ci riesco.
Come
poteva buttare al vento più di trent’anni di indipendenza, trent’anni in cui si
era preoccupata solo per se stessa, senza mai pensare – mai per troppo tempo –
a un noi?
Bren
non si meritava una stupida come lei. Una donna che si fidasse, che potesse
fare totale affidamento su di lui e… oddio, il solo pensarci le faceva venire
voglia di vomitare. Ormai era arrivata al punto che il solo vederlo parlare
con un’altra donna la faceva impazzire.
Bren chinò il viso su di lei e le posò un bacio su entrambi gli occhi. Sentì la
sua lingua calda accarezzarle le ciglia. Aveva raccolto le sue lacrime.
«È ancora troppo presto, ma questo è già un inizio» mormorò con dolcezza vicino
al suo orecchio, prima di darle un bacio sul collo. «Un giorno in cui ti
ritroverai sull’orlo di un precipizio. Quando succederà, non avere paura della
caduta. Ci sarò io a prenderti. Sarò la tua rete.»
«Credo che tu abbai scelto un osso troppo duro da masticare.»
Un
sorriso furbo gli illuminò il viso. «Forse. Ma ti ricordo che sei mesi fa
non volevi saperne niente di me. E adesso sono qui.»
Un punto a tuo favore,
pensò lei, mentre una dolce cortina di stanchezza iniziava ad annebbiarle la
vista.
«Bren? Ti andrebbe di dormire abbracciati? Solo per stanotte, o solo finché non
mi addormento…» Gesù, non si era mai sentita così imbecille come ora! E davanti
a lui!
Lui sorrise di nuovo, con una dolcezza che le fece male al cuore, e quando la
fece accoccolare sul suo petto magro, Denise sospirò, mentre i suoi occhi si
facevano sempre più pesanti.
Si trattava solo di qualche coccola dopo il sesso, continuava a ripetersi.
Coccole che aveva chiesto lei, ma non le sembrava il caso di pontificare sulla
cosa.
Domani sarebbe tornata la Denise di sempre… o forse no.
Forse sarò diversa. Forse sono già cambiata, rifletté, prima di
soffocare il corso dei pensieri con uno sbadiglio.
Al momento non le importava però. Voleva solo trascorrere la notte
abbracciata all’uomo che amava. Cullata dal battito del suo cuore contro
l’orecchio.
FINE
L'AUTRICE
Shay Mariner.
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Veramente bello!!
RispondiEliminaMi è piaciuto molto il fatto che questo racconto sembri parte di qualcosa di più ampio ma che allo stesso tempo, tu abbia spiegato tutto il necessario per capire bene la situazione.
Bello anche il fatto che tu abbia inserito qualcosa di paranormale all'interno del racconto!! Rende il tutto un po' più misterioso e intrigante!!
Anche per quanto riguarda i personaggi non posso fare altro che farti i miei complimenti!! Il carattere indistruttibile di Denise con un fondo di debolezza e la sensibilità di Bren con la sua base solida come la roccia si completano perfettamente!!
Davvero complimenti!!
Morena