Christmas in Love 2107 : " TI ODIO, NATALE" di Emiliana De Vico


Il Natale stava arrivando e Silvia non poteva impedirlo. L’avrebbe fatto se fosse stato in suo potere, ma non poteva. Non poteva e basta.
‒ Copriti, Margherita. Fa così freddo che ti si congelerà il nasino – disse Silvia, mentre la Tramontana le si insinuava nel colletto del cappotto, superando sciarpa, collo alto e cappello.
‒ Voglio andare sull’altalena. Sì, sì. ‒ La bimba puntò il dito verso l’area del parco in cui erano collocati quattro sedili con le relative catenelle. Oscillavano sospinte dal vento e la terra al di sotto era brulla, senza un filo d’erba, schiacciata da chissà quanti piedini.
‒ Diventerai un gelato – si lamentò Silvia e un brivido l’attraversò tutta.
‒ No, ci voglio andare ‒ piagnucolò la bimba.
‒ E va bene. Vieni che ti faccio salire.
‒ Anche Giacomo. Fai salire anche lui? – Margherita si girò a guardare l’unico altro bambino presente nel parco. Al solo sentirsi nominare, il piccolo scattò in avanti per raggiungere le altalene e si appropriò del sedile rosso. Su quelle di colore verde non voleva mai salire nessuno.
Silvia li seguì con un sorriso largo. Diede solo un’occhiata a Marco, accompagnatore del bambino. Si era sempre chiesta cosa spingesse un single, probabilmente nel pieno della realizzazione professionale e sentimentale, a intraprendere un percorso come il loro. Nonostante lo incontrasse quasi tutti i giorni da un annetto buono, quella domanda era rimasta senza risposta. Seguì i bambini e li sistemò, chiudendo le catenelle di sicurezza. Spinse prima Margherita e poi, visto che Marco non si avvicinava, fece dondolare Giacomo. Avevano i nasini rossi, le manine dentro i guanti strette alle corde, i piedini allungati a prendere velocità, il sorriso largo sulle bocche rosse e un po’ screpolate dal freddo. Ridevano per una semplice altalena, per il vento di Tramontana, per la campanella dorata che si era accesa sopra le loro teste, per l’abete colorato al centro del parco, per le stelle filanti che scendevano da un agrifoglio della dimensioni di un albero. Ridevano senza sapere quanto e come stesse per cambiare la loro vita con l’arrivo del Natale. Ridevano e a Silvia veniva un po’ da piangere per quei due bambini che si erano conosciuti in circostanze estreme, e che ancora avevano da cambiare, forse gioire, sicuramente piangere. Ridevano mentre Silvia guardava Marco e lui osservava a terra. Una terra senza erba, schiacciata da piedini, raffreddata da quell’inverno davvero troppo freddo. E il Natale stava arrivando.
‒ Più forte! – chiese Margherita e Silvia tornò a spingerli e a osservare il sole che scendeva dietro Monte Camicia, su Monte Corno, arrossando i picchi del Gran Sasso.
Si faceva notte presto, ma le luminarie si accesero, insieme ai lampioni sulla strada principale e tutto divenne più bello, anche se il Natale stava arrivando.
‒ Ho fame, Silvia.
Silvia ritornò al presente. ‒ Ho i biscotti e il succo, però sai che dopo aver mangiato non puoi tornare sull’altalena o ti verrà da vomitare. ‒ Fermò la bimba e sganciò la cintura. Lei le scese addosso in un abbraccio spontaneo, di quelli che la lasciavano felice. Sperò che il Natale non arrivasse, e poi si rimproverò. Il Natale doveva arrivare.
‒ Ho fame ‒ sentì ripetere Giacomo.
Marco se ne stava fermo con le mani in tasca e il collo sprofondato nelle spalle contro il freddo. Una cocca della sciarpa dondolava in avanti.
‒ Ho qualche biscotto anche per te, pulce. ‒ Fece scendere il bambino. Si spostarono su una panchina e il freddo delle assi di legno penetrò nei loro vestiti. Distribuì i biscotti e nascose l’unico succo che aveva. Marco non si era accorto di nulla. Poteva immaginare a cosa stesse pensando. Tutti sapevano cosa sarebbe accaduto a Giacomo. Ma era un bene se il bambino andava via dalla madre, vero? Era un bene se lasciava la struttura carceraria dove era stato con lei dal momento della condanna. Era un bene se andava a vivere in una famiglia normale senza che un agente in borghese girasse per il giardino e senza troppe serrature alle porte. Era un bene, vero?
‒ Voglio la cioccolata calda – chiese Margherita e subito Giacomo le fece eco.
‒ Mi spiace, ma oggi non possiamo fermarci a prenderla, non l’abbiamo comunicato – rispose e distribuì loro un altro biscotto a testa. Non potevano spostarsi a caso, ma dovevano rispettare il programma che avevano stabilito con gli operatori del centro. Se Silvia comunicava un itinerario doveva rispettarlo per la sicurezza di tutti.
Dopo i biscotti i bimbi ripartirono a razzo verso gli scivoli. Margherita faceva fatica a salire su quelli alti. In fondo, aveva solo tre anni. Ma non era questione d’età, constatò. Giacomo ne aveva due e mezzo ma era svelto, competitivo e riusciva dove altri non ce la facevano.
‒ Grazie, oggi ho dimenticato di portargli la merenda.
Silvia si trovò di colpo vicino a Marco. Lui si era spostato e lei non se ne era accorta, intenta a guardare i bambini. – Non devi ringraziarmi, io ne porto sempre in più, neanche dovessi sfamare una squadra di calcio.
Le si sedette accanto, entrambi con gli occhi fissi su Giacomo e Margherita i quali, per fortuna, avevano scelto lo scivolo più basso.
‒ Oddio, com’è freddo, stasera. – Le giunture delle dita le facevano male e la punta dei piedi era di piombo. – Loro, però, non lo sentono.
Ridevano ancora quei due bambini ignari di tutto tranne che del gioco, del correre e della pancia piena di biscotti.
‒ No, non lo sentono – ripeté Marco e Silvia percepì come diventava la voce di un uomo quando la disperazione era l’unico sentimento possibile.
‒ Sai, Marco, ci penso da tempo e… è una cosa positiva ‒ si trovò a dire.
Si incontravano spesso al Parco del sole. Era un luogo sicuro, non troppo lontano dal Centro Orizzonti, non troppo vicino alle aree più frequentate.
‒ Cosa? Cosa diamine c’è di positivo?  Non può essere positivo.
Silvia si girò a guardarlo. Ebbe modo di vedere da vicino la sua faccia, gli occhi chiari e quel ciuffo castano che non stava su. E poi il mento rotondo su cui restava un filo di barba. ‒ È la legge, Marco. I bambini non possono restare con le detenute per sempre. Se la condanna è breve, allora sì. Ma se si superano i tre anni di reclusione… - Fece un lungo sospiro che si trasformò in vapore. – Allora i bambini devono stare da qualche altra parte.
‒ Non è giusto – disse lui, mentre guardava lontano, oltre il Parco del sole. ‒ Come fai a sopportarlo? Come fai a non soffrire sapendo che anche Margherita andrà via tra pochi giorni?
Chi aveva mai detto che Silvia non soffriva? ‒ È diverso. Margherita tornerà a casa con la mamma. Lei ha terminato la pena detentiva. Conoscerà la vita come avrebbe dovuto essere già dall’inizio. Sono felice per lei, anche se mi fa tristezza. Inizierà la scuola materna nel suo paese, vicino ai nonni e ai parenti. Sai, la madre si è impegnata davvero tanto nel progetto rieducativo. Invece Maria non ne ha voluto sapere neanche quando è nato Giacomo.
‒ Non pensavo che la sua condanna potesse aumentare ulteriormente. – Marco strinse le mani a pugno, le dita bianche, il vento che vi scivolava sopra.
‒ Be’, più reati, più condanne, più anni di carcere. È arrivata a tredici. Capisci che Giacomo non può stare con lei, chiuso nella struttura per così tanto tempo? – Scosse la testa e sprofondò il naso ancor più nella sciarpa.
‒ Lo so, ma non è giusto.
‒ Non puoi fare nulla e…
Il pianto di Giacomo richiamò la loro attenzione e, prima che Silvia si rendesse conto dell’accaduto, lui era già vicino ai bambini. Aveva preso il piccolo tra le braccia e gli parlava piano.
‒ Ti sei fatto male? – gli stava chiedendo.
Quanto poteva essere dolce la voce di un uomo? Quanto tenere le sue mani sui capelli? E i suoi baci sulle guance?
‒ Ci sono io, piccolo, non avere paura.
Silvia sentì un singhiozzo formarsi alla base della gola. Non era vero. Marco non sarebbe stato sempre con Giacomo. Marco era un bugiardo.
Maledetto Natale, io ti odio. E piegò la testa. Margherita non doveva vederla così triste.

***
  
Le finestre davano sullo spiazzo davanti e un robusto cancello con recinto in cemento proteggeva la struttura a un piano dove le detenute con i figli piccoli scontavano la loro pena. Era un giorno grigio. La tramontana aveva portato con sé grosse nuvole scure, ma senza neve.
‒ Come state? – chiese alle sei donne e tutte risposero, tranne Maria che teneva Giacomo in braccio e lo stringeva come se qualcuno potesse sottrarglielo in quel momento. Le fece male vedere la sua disperazione. Ma la donna non era lì per un periodo di vacanza. Era una criminale e il carcere doveva essere duro. Forse, la separazione dal figlio era la giusta punizione? Ma il bambino cosa aveva fatto per meritare tutto ciò? Non era lecito tenerlo segregato. Così come non era corretto mandarlo in un’altra famiglia.
‒ Buongiorno a tutti – disse Marco, entrando nel salone dove quasi ogni giorno prelevavano i bambini per portarli fuori. Ogni piccolo aveva un volontario che si offriva di mostrare loro la vita oltre le sbarre, anche se erano sbarre addolcite rispetto a quelle della struttura carceraria. Le madri venivano portate in centri più piccoli, in comunità ristrette dove avevano libertà di muoversi da una stanza all’altra, ma mai fuori. Era un modo per salvaguardare il legame madre-bambino senza essere troppo oppressivo. Ma tutto era legato al tempo. Per le condanne superiori a tre anni di carcerazione quel tipo di struttura non andava bene e i bambini venivano separati dalle madri.
‒ Ciao, Marco – salutò in risposta. Vide Giacomo staccarsi dalle braccia rigide della madre e correre verso l’uomo e pensò di non aver mai visto una scena più bella. Peccato che lui non fosse suo padre. Peccato che Giacomo non ne avesse uno. Ma presto avrebbe avuto una nuova famiglia e, lì, avrebbe sperimentato il rapporto stretto con una figura maschile.
‒ Andiamo, andiamo! – Margherita le strattonò il giubbotto.
‒ Certo, andiamo.
‒ Anche Giacomo. Sì, anche Giacomo viene con noi -, e corse verso l’amico, lo prese per mano ed entrambi chiesero il permesso di stare insieme.
‒ Non so, Marghe, forse loro hanno in programma di andare da un’altra parte e…
‒ No, vogliamo andare al parco giochi insieme ‒ insistette Margherita e i suoi occhi si fecero umidi.
‒ Va bene. Veniamo anche noi ‒ le rispose Marco e Silvia si sentì felice di poter condividere con lui quel giorno.
I bambini si vestirono in fretta mentre Marco si era offerto di andare tutti con la sua automobile. ‒ Ci fermeremo soltanto al parco giochi, oppure faremo un giro, se dovesse essere troppo freddo ‒ disse all’educatore di turno.
Valentina, la madre di Margherita, era felice di sapere che la sua bambina potesse stare all’aperto. La affidava a Silvia ogni giorno con un grosso grazie sulle labbra.
Solo Maria non rispose. Gli occhi disorientati, sempre in movimento per il salone, la bocca socchiusa a prendere aria e poi subito stretta in una linea dura, il bicchierino del caffè tra le mani. ‒ Forse, potrebbe stare con me, non dovrebbe uscire, tanto, tra pochi giorni… ‒ provò a dire la donna. – Voglio stare con lui. Ho così poco tempo. – Il suo tono saliva ma non aveva ancora attirato l’attenzione del figlio.
‒ Maria, ne abbiamo parlato a lungo. Giacomo deve poter uscire almeno un’oretta al giorno. Non gli fa bene stare sempre qui – si intromise un educatore.
‒ Ma lui se ne andrà e io… ‒ il tremore alla bocca raggiunse anche le mani di Maria, la testa.
‒ Oggi, lui ha diritto e voglia di uscire, lo vedi com’è contento? Tornerà alle diciotto in punto, come sempre. In questi giorni siete tutti e due molto agitati. Se gli consenti da andare fuori tornerà più sereno – insistette l’operatore.
‒ Io non voglio! – urlò la donna. – È ingiusto. Ucciderò quel giudice. Gli squarterò i figli. – La disperazione si stava trasformando in rabbia. I toni salivano mentre il bicchierino volava per la stanza e il caffè si spargeva a terra e sui vestiti delle altre madri sedute al tavolo. – Non voglio!
L’agente in borghese entrò nella stanza. ‒ Bisogna abbassare la voce – disse e Silvia gli guardò il maglione ampio. Dov’era la pistola d’ordinanza? Era stata nascosta per preservare i bambini, ma c’era. Sarebbe comparsa in caso di necessità? In fondo, il centro Orizzonti non era che un carcere in cui gli oggetti di contenimento venivano celati, ma le regole e le limitazioni restavano. Le madri dentro, i bambini a metà tra dentro e fuori. Potevano uscire per frequentare l’asilo comunale e, se affidati a volontari come Silvia e Marco, potevano girare in paese. Ma per Silvia non era più un semplice volontariato, e Margherita non più la figlia di una detenuta. Era una bimba a cui si era affezionata e che la ricambiava. Non importava che tipo di reato avesse commesso la madre, Silvia amava quella bambina e la portava con sé quasi ogni pomeriggio da un paio di anni. Margherita era abbracci, nasino rosso, sorriso largo. Era affetto puro e ciò che  Silvia aveva iniziato pensando fosse solo una buona azione si era trasformata in bisogno di esserci, in voglia di aiutare, in desiderio di darle qualcosa di bello e buono.
‒ Prendete i bambini e andate ‒ disse loro l’educatrice. ‒ E non dimenticate di firmare il modulo con l’itinerario di oggi. Semmai, tornate una mezz’oretta prima ‒ continuò, muovendo verso Maria, crollata in un pianto senza respiro sul tavolo, tra bicchierini e biscotti. Qualche detenuta si limitò a scuotere la testa. Qualche altra insultava la giustizia italiana, i giudici corrotti, la malasorte, i ricchi e la loro strada spianata.
Silvia si sbrigò a preparare Margherita, mentre Marco stringeva forte Giacomo e non si muoveva, con gli occhi fissi su Maria. ‒ Andiamo, dai – lo sollecitò sentendo salire i singhiozzi di Maria e le voci delle altre donne. Era meglio evitare tali scene al bambino. Di sicuro, ce ne sarebbero state altre. Il Natale si avvicinava e con esso la data dell’affidamento di Giacomo. La tensione saliva e Silvia la sentiva nelle parole delle detenute, nel malumore dei bambini, nell’allerta degli operatori e degli agenti.
Poteva accadere di tutto. No, in realtà non poteva accadere nulla. Giacomo sarebbe andato a vivere in una famiglia libera e la madre avrebbe scontato la sua lunga pena.
Madri sole. Figli soli. Ma non Margherita. Lei sarebbe tornata a casa, in Puglia, con sua madre. Avrebbe visto il Natale in un altro modo e a gennaio avrebbe iniziato a frequentare l’asilo comunale. Ma tutto questo, lontano da Silvia, dal loro Parco del sole. Era un cambiamento positivo, ma le lacrime che le premevano sotto le palpebre non erano di felicità. Seguì Marco alla sua auto. C’era un solo seggiolino a cui agganciò Giacomo.
‒ Dobbiamo metterle la cintura – disse rivolta a Silvia.
‒ È troppo piccola. Mi siedo dietro e la tengo in braccio. Il parco non è poi così distante.
E lui, passandole vicino, le toccò il viso. Una carezza piena di tenerezza. Volle guardarlo. Quale tipo di uomo si buttava in una situazione come la loro? ‒ Sei stato suo? – gli chiese a bruciapelo, senza avere il diritto di sapere nulla. Percepiva i polpastrelli muoversi sulla guancia e poi l’intero palmo. Neanche Marco aveva il diritto di toccarla, ma la loro era una vicinanza nata dal condividere la stessa esperienza.
Marco non le rispose. Si limitò a scuotere la testa in un cenno non troppo convinto.
‒ Sei il padre di Giacomo? – Se le avesse detto di sì gli avrebbe sputato in faccia. Perché non aveva chiesto il riconoscimento del bambino? Perché non l’affidamento per portarlo via dal centro? Perché permetteva il distacco definitivo tra madre e figlio?
‒ Non dovresti chiedermi una cosa del genere. Soprattutto, non dovresti nutrire dubbi del genere.
Le girò le spalle terminando il contatto tra loro e lei si concentrò sulla nuca, sulle spalle, sul taglio definito dei capelli castani, sulla vita stretta nel giubbotto di pelle. In fondo cosa sapeva di quell’uomo?
‒ Vieni – le disse e Silvia salì con Margherita in braccio. Restarono tutti in silenzio per un pezzo, tanto che lei capì che non le avrebbe risposto.
Poi un sospiro lungo e Marco cominciò a parlare. ‒ In questa storia, io non sono nulla. Avrei voluto essere più deciso, invece sono stato catapultato in qualcosa che non mi aspettavo. Lei ha questa capacità. Ti manipola, ti chiede aiuto e intanto ti ingabbia. Per questo la sua famiglia le ha girato le spalle. È una delinquente fatta e finita. Ma io non potevo tirarmi indietro. La mia coscienza non me lo permette. – Un nuovo sospiro, più lungo, più profondo. – Siete pronti per andare al parco?
Giacomo batté le mani e Margherita rise. Partirono e Silvia si concentrò sulle vetrine del centro, mentre rifletteva. La neve finta, gli addobbi rossi e dorati, i fiocchi esagerati, le luci e il colore, le esposizioni sovraffollate di pacchi regalo. Anche la gente a passeggio sotto le luminarie non ancora accese. E loro quattro dentro un’auto, con l’amaro in bocca, con la voglia di gridare o scappare lontano. Un abete dai rami folti era stato posizionato al centro della Piazzetta del leone. Una stella pesante sulla punta.
Ti odio, Natale.
Non c’era nessuno. Il parco era vuoto e ghiacciato. La Tramontana fredda ancora su di loro. Giacomo e Margherita corsero avanti, diretti alla nave basculante e Silvia si accomodò sulla panchina lì di fronte.
‒ Non hai un fidanzato che ti dica di lasciar stare? – Marco le si sedette a fianco, le mani sprofondate nelle tasche, il bavero del giaccone alzato su collo e orecchie.
‒ Perché mai dovrebbe dirmi di lasciar stare? Faccio una buona azione, e poi dedico a Margherita solo un paio di ore al giorno. Non è un impegno gravoso.
Lui allungò le gambe in avanti, gli occhi fissi sui bambini.
‒ E comunque, non sono fidanzata.
‒ Ah! Come mai sei capitata al centro Orizzonti?
Silvia guardò il cielo carico di nuvole. Il freddo artico, calato per gelare le feste natalizie, non voleva mollare la presa. Il naso le si ghiaccio in un momento. ‒ Io abito qui. Vivo nel palazzo di fronte alla struttura, al quarto piano. Guardavo le detenute quando il centro ha iniziato a funzionare. Le vedevo uscire all’aperto, sempre alla stessa ora. Si fermavano sul retro, lontano dal cancello. Invece i bambini correvano tutto intorno. Tenevo d’occhio le guardie in borghese e lo scuolabus che veniva a prendere i piccoli per portarli all’asilo. È sempre un’educatrice che li accompagna fuori. Le madri non possono. All’inizio ero curiosa, poi è diventato uno spettacolo familiare. Noi del vicinato immaginavamo chissà cosa. Pensavamo a poliziotti che andavano e venivano, a camionette piene di detenute, a pregiudicati che facevano la ronda lì davanti. Invece è stato tutto tranquillo. Quando ho visto la richiesta di volontari per portare fuori i bambini ho agito d’istinto. Li avevo osservati così a lungo che mi sembravano familiari. E poi è giusto dare una mano.
‒ Margherita ha un papà che la viene a trovare?
‒ Sì, circa una volta al mese. Abita in Puglia e lavora a tempo pieno. Quindi gli operatori del centro hanno cercato qualcuno della zona per dare alla bimba l’opportunità di uscire con regolarità. Ma a Natale lei tornerà a casa. Il periodo di detenzione è finito e io… - guardò a terra. Il cielo non era stato clemente.
‒ Anche lei a Natale. Perché deve accadere tutto a Natale? Dovrebbe essere un periodo felice.
Silvia lo guardò negli occhi. Sapeva perché tutto accadeva in quel momento. ‒ In realtà, sono due i periodi in cui si organizzano grandi cambiamenti per i bambini e le loro madri: ad agosto e a dicembre. A natale ci sono le vacanze scolastiche e gli adulti sono propensi a periodi di ferie. In più ci sono mille occasioni, festeggiamenti, condivisone e incontri familiari. È un momento propizio per fare nuove conoscenze. Margherita avrà a disposizione parecchi giorni per ambientarsi alla nuova casa, al nuovo ritmo di vita, e a gennaio inizierà la scuola. È un miracolo che la fine della detenzione coincida con questo Natale. È un regalo dal cielo. – Sorrise, ma la domanda: “E io cosa faro?”, non voleva andarsene dalla sua mente. Eppure era un distacco positivo, non come quello che sarebbe avvenuto tra Giacomo e Marco.
Alle sedici e trenta le luminarie del parco si accesero. Chissà se sarebbe arrivata la neve? – E tu? – gli chiese.
Marco sfregò le mani tra loro. Dovevano essersi raffreddate anche stando dentro le tasche. Lui, che aveva tenuto lo sguardo fisso sui bambini, lo spostò sulla bordura di stelle di Natale le cui punte erano annerite dal freddo eccessivo.
‒ La conosco da sempre. È una mia parente. Per lei e per Giacomo faccio più di cento chilometri al giorno. Ma è un sacrificio che affronto volentieri. Non avrei mai immaginato che andasse a finire così. La prima condanna era molto positiva e i tre anni di reclusione facevano ben sperare. Invece…
‒ Lo so. La seconda condanna ha fatto salire la reclusione a tredici anni.
L’idea che fosse lui il padre non voleva abbandonarla. ‒ Se tu fossi suo…
‒ No, Silvia, non sono il padre. Sono il cugino di Maria ed è per questo che non posso fare nulla.
Una leggera pioggerella inumidì il cappello di Silvia, mentre i capelli di Marco diventavano più scuri, più pesanti.
‒ So che si merita ogni anno di detenzione, ma Giacomo… Portiamoli via o si bagneranno.
I bambini correvano in tondo sulla pista di pattinaggio come se quella fosse una pioggia speciale, in un giorno speciale, grati di essere lì e di giocare in libertà. Ma non era un giorno speciale e il Natale stava arrivando.
Ti odio, Natale. E odiava le stelle colorate, gli abeti addobbati, le neve finta, e i colori oro e rosso. Voler bene a qualcuno, a volte, non era per nulla facile.
Marco si girò a guardarla. – Restiamo ancora un po’ – le disse e la sua mano finì su quella di Silvia, stretta, le dita intrecciate. – Ce la faremo.
Era una verità che andava soltanto capita e assimilata. E con quella mano nella sua sembrava più semplice.
Riportarli alle diciotto non era sempre fattibile. Margherita voleva fare sempre altre cose, oltre l’itinerario e l’orario prestabilito e quindi lagnava. Invece Giacomo si stancava in fretta e lagnava lo stesso. Marco li prese in braccio entrambi. Avevano i cappellini umidi, così come i cappottini. Attesero che la guardia aprisse il cancello, poi entrarono.
‒ Ciao, Francesco. – Margherita salutò l’uomo che veniva verso di loro.
‒ Ciao, piccola. Dove sei stata? – chiese l’agente e Silvia si domandò se anche lui avrebbe sentito un po’ di dolore alla partenza della bimba.
‒ Al parco del sole.
‒ Con questa pioggia?
‒ Ci siamo messi al riparo – si giustificò Silvia. – Possiamo rientrare? Si sono un po’ raffreddati.
‒ Certo. Avviso il collega all’interno – e si allontanò per raggiungere la guardiola. Fece loro cenno di proseguire.
Margherita pretese di scendere e corse verso la madre che la attendeva nel salone. Giacomo, invece, se ne stette accucciato sulla spalla di Marco, assonnato e, forse, desideroso di prolungare il loro contatto. Lui lo baciò nel punto in cui il cappellino lasciava scoperta la fronte. – Che c’è? Sei stanco? – gli chiese.
Il bimbo nascose la faccia nel collo di Marco.
‒ Domani tornerò e andremo di nuovo fuori – lo rassicurò
‒ Vieni con me, Giacomo. Tua madre ti aspetta in camera. – L’educatrice si avvicinò e tese la mano al bambino che sembrava propenso a non volerla seguire.
‒ Vai, piccolo – lo spronò Marco. Lo fece scendere e Giacomo si avvicinò alla donna. Si avviarono verso l’area a loro preclusa. Sulle spalle di Marco e Silvia c’era la tensione di una storia insostenibile.
‒ Non possiamo restare qui – gli ricordò Silvia facendo alcuni passi verso l’ingresso. Si fermò appena capì che lui non la stava seguendo. – Che fai? – gli chiese, come se avesse il diritto di conoscere tutto di lui, anche i pensieri e le riflessioni. Ma l’aver passato dei giorni insieme non le dava un tale potere, anche se lui l’aveva toccata. Anche se lei l’aveva desiderato.
Marco indicò un albero di Natale in un angolo. Non c’erano molte palline e le decorazioni erano perlopiù frutto delle detenute che erano passate in quel centro: scatoline incartate, stelle all’uncinetto, palline di feltro, piccoli ninnoli di compensato leggero. – Non è un albero allegro. Non sembra neanche Natale, qui dentro.
‒ Resto dell’idea che non sarà mai un albero a fare una festa, ma lo spirito che il Natale porta con sé. Quella spinta di gioia e la voglia di essere migliori. Anche la speranza.
‒ Maria non ne ha. Lo so che è stata lei a tracciare il suo futuro. Le sue scelte, però, sono ricadute su Giacomo. – Si voltò a guardarla. – Sono felice di sapere che per Margherita sarà tutto diverso.
Silvia guardò quell’albero misero, senza luci. Riconobbe il Babbo Natale che Valentina, la madre di Marghe aveva confezionato con i ferri e la lana. Trovò la stella che aveva decorato con la figlia e quello stesso albero misero le sembrò più bello. Quante storie conteneva? Quanti lavori congiunti tra madri e bambini pendevano dai rami un po’ logori dal tempo? Neanche un odore aleggiava in quel posto. Era tutto asettico e impersonale. Non c’era sapore di dolci, di spezie, di cucina. Non c’era odore di casa. E non lo era.
‒ Qualche problema? – chiese Francesco affacciandosi dalla porta esterna.
‒ Oh, scusaci, stavano chiacchierando – si giustificò Silvia, sapendo di non poter restare nel salone.
‒ Mi spiace, Silvia, ma è la regola.
L’agente aprì ancor di più la porta per lasciarli passare e poi li anticipò verso la guardiola per manovrare il cancello.
Era notte da un po’ e quel freddo inusuale non voleva attenuarsi. ‒ C’è un circo in città. Ti andrebbe di portarci i bambini? – gli domandò, come se fossero obbligati a uscite comuni.
Marco guardò il cielo. – Va bene. Portiamoli.
Il saluto non voleva arrivare. Silvia si concentrò sul gocciolio dell’acqua nel tombino sul quale si era fermata e sul freddo che le irrigidiva la pelle del viso. – Se sali da me ti faccio vedere la struttura da un’altra angolazione – gli propose. Silvia aveva compreso che lui non era pronto ad andare via e neanche lei voleva lasciarlo. Soprattutto, non era pronto a lasciare Giacomo.
‒ Mi piacerebbe, se non sono di disturbo.
‒ No, affatto. I miei genitori non ci sono e poi, vedrai… vedrai cosa c’è lassù.
Non fecero altro che attraversare la strada e Silvia aprì il portone principale. Ignorò volutamente l’ascensore e salì, con lui alle spalle, fino al quarto piano, mentre memorizzava il suo respiro un po’ accelerato e il piacere di saperlo con lei.
L’appartamento era caldo e in giro lei e sua madre avevano disseminato ninnoli natalizi, stelle di Natale e tovaglie rosse. Colori che scaldavano il cuore e odori che riempivano pancia e testa.
‒ Passiamo dal salotto, da lì si vede meglio. – Quando aprì la porta-finestra che dava sul balconcino il vento li investì con forza, ma Silvia non arretrò. Appoggiò le mani sulla balconata e il ghiaccio le arrivò dalle dita al polso. Le nacque un sorriso spontaneo sentendolo al suo fianco, le spalle che si sfioravano, i respiri che si condensavano salendo in alto. – Vedi?
Sotto di loro, la strada, il cancello robusto e alto, la parte frontale del centro con le luci spente e i vetri scuri, l’albero invisibile e poi, subito dietro, vetri illuminati, alberi colorati che si intravedevano dalle finestre con i festoni, movimenti di persone dietro le tende, forse bambini che correvano da una parte all’altra, forse madri che preparavano la cena.
‒ Lì, c’è la sala comune in cui mangiano. – Le tende erano state aperte e si capiva che stavano apparecchiando il tavolo. Un paio di seggioloni rialzati erano contro il muro. Un bimbo sfrecciò dietro la finestra per poi sparire al di là. – E lì, ci sono le camere. Al mattino, le detenute scuotono le lenzuola. Quella è la camera di Maria – indicò la fine della struttura, l’ultima finestra illuminata da una luce intermittente. – È l’albero di Giacomo. Invece Margherita dorme qui – e puntò il dito a metà struttura.
‒ Sembra una scuola, così bassa e larga – rifletté Marco.
‒ Lo era. È stata ristrutturata da pochi anni.
Era la parte vitale del centro, dove le madri passavano il tempo in attesa che la pena si concludesse. 
‒ Dietro, hanno posizionato dei giochi. Questa estate sono arrivati due scivoli, un cavalluccio e qualche altra cosa imballata che non ho potuto vedere.
‒ Un girello e un dondolo – rispose Marco, con un fumetto davanti alla bocca.
‒ Cosa?
‒ Erano un dondolo e un girello.
‒ Ah, a me non hanno mai permesso di andare sul retro.
‒ Neanche a me – puntualizzò lui, poi sorridendo alla faccia sorpresa di Silvia disse: ‒ li ho acquistati io.
‒ Che gentile che sei stato. I bambini ne avevano proprio bisogno. – Silvia alzò gli occhi al cielo senza stelle. Le nuvole pesanti sulle loro teste. – Sai cosa fanno quelle pesti? Scappano dal retro e si nascondono nel gabbiotto delle guardie. Se c’è Francesco ci restano tanto tempo. Le madri chiamano ma non si avvicinano. È sempre un’educatrice che li va a riprendere. Si sentono ridere fin quassù. – Sorrise di più sapendo che le guardie tenevano di scorta qualche caramella o cioccolatino per i bambini.
‒ Sembra quasi vivibile da quassù.
Silvia si strinse nelle spalle. Il carcere poteva essere vivibile? Era comunque una reclusione dovuta a reati importanti. La madre di Margherita aveva dovuto scontare solo tre anni. Maria, invece, era arrivata con una sentenza non ancora perfezionata e nel corso del tempo, più reati e più condanne si erano sommate fino a raggiungere un tempo complessivo eccessivo. Troppi per poter tenere Giacomo con sé. La struttura aveva le sembianze di una scuola, come aveva detto Marco, ma non lo era.
Silvia non si aspettava un abbraccio improvviso, una stretta così calda. Il profumo di Marco le entrò dentro, le risvegliò le narici anestetizzate dall’aria fredda. Le sue guance ghiacciate trovarono il tepore del corpo.
‒ Grazie, Silvia. Pensavo di farcela, invece…
Silvia lo strinse a sé. Conosceva bene le emozioni che stava provando Marco, in fondo le stava provando anche lei. Il loro divenne un intreccio. Se ne stettero così per lungo tempo fino a che Marco non allentò la presa, le alzò il viso e la baciò. Sentì le labbra fredde e poi subito calde, sentì il grazie dietro quel gesto e, forse, qualche altro sentimento diverso. Era condivisione di un dolore comune? Era voglia di stare e far stare bene?
‒ La tua fidanzata non approverebbe – gli disse.
‒ Non c’è nessuna fidanza che possa approvare o meno quello che faccio. Quindi posso abbracciarti e baciarti tutto il tempo che mi va. – Anche se si era fatto indietro di un passo continuava a tenerle il viso tra le mani. Era un posto piacevole che Silvia amò da subito. Chissà se aveva il naso rosso? Chissà se gli piaceva con quel cappello largo che le era sceso sulla fronte? Chissà se i suoi capelli chiari, fini fini, gli sarebbero sembrati miseri? A lei piaceva tutto di lui. Anche il non conoscere la sua vita privata, il non sapere che lavoro svolgesse o quali desideri avesse. Lui voleva bene a Giacomo e stava facendo di tutto per aiutarlo. Viaggiava per più di cento chilometri per portare fuori il figlio di una detenuta. Silvia amava questo suo modo di essere.
Il loro contatto finì troppo presto. – Domani, al circo – le disse e si voltò per andarsene. Silvia restò sul balcone e attese di vederlo in strada. Voleva salutarlo, dirgli mille cose di se stessa. Voleva gridare: ‒ Sono single, laureata in biologia e impiegata in un laboratorio privato di analisi. Vivo ancora con i miei genitori perché è qui che ho il mio nido, perché non ho ancora un motivo per cercare una mia strada. Perché qui vicino c’è ancora Margherita. Sono felice di averti conosciuto e tu? Tu sei contento di avermi incontrata? Perché ti sei avvicinato a me? Perché questa sera mi hai baciata?
Però non disse nulla.

****    

  Il giorno passò lentamente. Non avevano un vero e proprio appuntamento galante, ma solo l’impegno di portare al circo due bambini. Eppure si era preparata con cura: calze pesanti, maxi maglia, cappotto, sciarpa e niente cappello. Il freddo artico era una novità, ma quel giorno Silvia l’avrebbe affrontato a capo scoperto.
Scese con cinque minuti buoni di anticipo e le toccò aspettare davanti al cancello. Non si entrava prima dell’orario prestabilito in un centro di detenzione. Quando la guardia di turno la fece passare era quasi un pezzo di ghiaccio. Di Marco nessuna traccia.
L’educatrice la fece accedere al salone. Era caldo e come al solito, le donne se ne stavano sedute attorno al tavolo. Maria si alzava e si sedeva, inquieta, mentre Valentina, la madre di Margherita, teneva in mano gli immancabili ferri con i quali stava facendo un vestitino alla figlia. Il lavoro a maglia era diventata la sua passione, grazie a un corso di formazione promosso dal centro. Maria non aveva trovato ancora la sua strada. Non aveva aderito a nessun progetto, e in quel momento le sembrò iperattiva e strana.
‒ Giacomo, dove vai? – lo chiamò la madre appena il piccolo si mosse per la stanza. Il bambino si bloccò e fece dietrofront.
Silvia avvicinò l’educatrice di turno. – Io e Marco vorremmo portare i bambini al circo. C’è giusto uno spettacolo che inizia alle sedici e termina alle diciassette e trenta.
‒ Se le mamme non hanno  nulla in contrario, per me non ci sono problemi. L’importante, lo sai, è riportarli in orario.
‒ Certo, come sempre. Non potete avere nulla da ridire, in questo senso. Sono stata più che puntuale.
‒ Scusa, Silvia, non volevo accusarti di nulla, ma sai che Giacomo… Maria è già su di giri. Un ritardo sarebbe difficile da giustificare, in questo frangente.
La tensione all’interno della struttura era palpabile e Silvia la percepiva dal momento in cui era entrata. Continuava a stringere tra le mani un pacchetto di fazzoletti ed era un comportamento strano, per lei che era molto controllata. – Capisco. Ora vado a preparare Margherita e a chiedere il consenso a Valentina.
Ogni volta che sentiva il rumore del portoncino si voltava in cerca di Marco. Quando lo vide, il battito schizzò in velocità. Era un uomo che non passava inosservato però, all’interno del centro dove il peso delle sbarre sembrava soffocarla, la bellezza spariva. Tutto era piatto e grigio e Silvia aveva voglia solo di prendere Margherita e fuggire fuori. Ma quel giorno non pensò ad altro che al sorriso di Marco, al modo in cui le si avvicinava, ai suoi capelli castani tenuti molto corti ai lati. E agli occhi. Erano speranzosi, positivi. C’erano forse novità su Giacomo? Eppure Maria era troppo agitata e i fazzoletti usati e appallottolati sul tavolo significavano che c’era ancora da piangere.
‒ Buonasera – salutò lui e Giacomo gli corse incontro finendo tra le sue braccia. – Ehi, ciao, tutto bene?
Il bambino gli si strinse contro e Silvia provò di nuovo quel senso di mancanza d’aria.
‒ Oggi ti porterò in un posto speciale – stava dicendo Marco. – Andremo al circo. Ci saranno i giocolieri, gli acrobati, gli animali feroci e…
‒ No! Non portarlo lì. – La voce di Maria si alzò su tutto il rumore nella stanza.
Silvia sentì il gelo lungo la schiena e vide Marco irrigidirsi.
‒ Non faremo tardi, Maria. Sai che tuo figlio è a sicuro con me – cercò di tranquillizzarla.
Ma la testa della donna continuava a dire di no, le sue mani a stringersi l’una all’altra e la bocca a tremare. ‒ Ti ricorderà. Ricorderà le uscite e i posti dove lo porterai e scorderà me che sono sempre stata qui dentro. Gli ho potuto far vedere solo questo posto di merda. E lui ricorderà te, Marco. Non portarlo fuori. Fallo restare qui. Maledetti giudici corrotti e le mazzette che non posso dare. Non voglio che lui mi scordi, non voglio…
La sala si azzittì, il Natale si congelò, il circo sbiadì e la catastrofe fu più vicina che mai.
‒ Il bambino deve uscire – ribadì l’educatrice. – Non gli fai del bene se glielo impedisci. Un’ora fuori dal centro non gli farà dimenticare un bel nulla.
‒ Non voglio, brutta stronza, hai capito? Sono la madre e decido io. – Con un colpo di mano spazzò tutto ciò che c’era sul tavolo.
Silvia fece un passo indietro ma Marco rimase fermo, con Giacomo in braccio che aveva cominciato a piagnucolare.
‒ Non farti vedere in questo stato, Maria. Fallo per…
‒ No, maledetti. Ridammelo! – urlò la donna e si lanciò in avanti. Una guardia entrata in fretta nella stanza le si parò davanti. Bastò quel gesto a mandarla fuori di testa. Urlò di nuovo spaventando gli altri bambini e destando la rabbia delle altre madri. Getto via tutto ciò che trovò, graffiò i volti delle amiche detenute intervenute per calmarla, si sbracciò in parole e gesti offensivi.
‒ Andate – disse loro l’educatrice e silvia chiese il consenso a Valentina che le fece un cenno d’assenso. Prese la bimba e raggiunse l’esterno. Dietro di lei i passi di Marco e il pianto di Giacomo.
‒ Uscite in fretta – ribadì la guardia esterna. – Devo andare dentro.
Silvia corse all’auto di Marco. Cosa sarebbe successo? Era risaputo che Maria avesse frequenti atteggiamenti aggressivi. Spaventava i bambini. Disorientava Giacomo. Allontanava da sé ogni persona.
Marco appoggiò Giacomo al seggiolino auto e lo strinse ancora più forte. – Non piangere, ci sono io con te – stava dicendo e Silvia abbracciò Margherita. Dietro di loro c’era il cancello chiuso. Davanti avevano tutta una via da percorrere. Fino al rientro.
Partirono senza dire una parola, solo con il lamento di Giacomo nelle orecchie.
‒ Non doveva farlo. Non davanti al figlio. È solo colpa sua. Lei è stata l’artefice del proprio destino. È una…
Marco parlava di scelte sbagliate, ma i crimini erano qualcosa di più di uno sbaglio.
Attraversarono la Piazzetta del leone e i Portici senza fiatare. Anche il bimbo si era calmato, probabilmente sentiva la tensione venire meno. Il tendone a strisce bianche e blu era stato montato nel parcheggio dell’ipermercato e Margherita accolse quella novità con estrema curiosità. La fila al botteghino li obbligò a sostare all’esterno.
‒ Le bandiere. Guarda, il pagliaccio. Andiamo, andiamo – ripeteva la bambina tirando il braccio di Silvia.
Si accomodarono sulle panche di legno, ognuno con un bimbo in braccio. Le luci e il movimento assorbirono l’attenzione di tutti. Il Centro sembrava lontano come un ricordo sbiadito. Come se le urla di Maria non ci fossero mai state. E poi i trapezisti, i leoni ammaestrati, le luci laser. E Marghe che un po’ rideva e un po’ aveva paura. E Giacomo con un bastoncino di zucchero filato che scordava di mangiare perché troppo preso da tutto e che strofinava sulla mascella di Marco, sul suo giubbotto scuro. E chissà se gli piacevano i suoi capelli sciolti, biondi e fini fini, se era contento di condividere con lei quell’esperienza più buia che natalizia? Chissà? Silvia desiderò di avere un momento tutto per lei. Per questo gli cercò la mano, intrecciò le dita a quelle di Marco e guardò lo spettacolo con un sentimento dolce che le nasceva nello stomaco. Agli occhi estranei sembravano due genitori qualunque, due adulti che si piacciono e si stimano, due persone che si caricano sulle spalle i problemi dell’altro. Chissà!
‒ Dai bambini, dobbiamo sbrigarci. Manca poco alle sei. – Marco raggiunse l’auto e aprì gli sportelli. Giacomo aveva ancora in mano lo stecco di zucchero filato. Non voleva mangiarlo. Non voleva buttarlo. ‒ È mio – diceva quando Silvia provava a toglierglielo di mano.
‒ Ti è piaciuto lo spettacolo? – Ma il bimbo non riusciva a decidere. Era stupito, si capiva, anche un po’ stordito dalla novità.
Marco lo accarezzò. – Andrà tutto bene – gli disse, ma chi stava rassicurando?
C’era traffico e, in tutta probabilità, avrebbero fatto qualche minuto di ritardo. Di nuovo luci lungo la strada, vetrine, colori. E freddo. Silvia sentiva freddo in tutto il corpo. Man mano che si avvicinava al centro, la tensione tornava e prendeva il posto della bella emozione che aveva provato tenendo stretta la mano di Marco. Per due anni interi aveva aiutato Valentina e Margherita. Quasi ogni pomeriggio era stato dedicato alla bambina. Ma ora lei se ne andava e Silvia avrebbe dovuto ricominciare con un altro bimbo, un’altra storia, un altro percorso che si compiva. Cercò di evadere dallo sguardo di Marco che la teneva d’occhio dallo specchietto retrovisore. Il suo era un grazie. Un per favore. Un mi piaci che le faceva battere il cuore. Silvia, dal suo posto, seguiva i movimenti dell’uomo, delle spalle quando lui cambiava marcia, sorpassava e ogni volta che poteva staccare gli occhi dalla strada si immergeva nel suo sguardo. Voleva piacergli. Voleva piacergli più di tutto.
Non avevano fatto tardi. Mancavano pochi minuti alle diciotto che fecero il loro ingresso nel salone del centro Orizzonti. L’educatrice accolse i bambini e Margherita si allontanò in fretta da Silvia per abbracciare la madre. Non avrebbe voluto far scivolare quella manina, ma non poteva trattenerla.
Valentina le si avvicinò tendendole del denaro. – Scusami, Silvia, non avevo pensato al biglietto d’ingresso per il circo. – Quei soldi ribadivano che era Valentina la persona deputata a pensare alla figlia.
‒ Oh, no, non devi. È un piccolo regalo per Margherita. Sai che mi fa piacere portarla in giro. – E questo era il gesto di qualcuno che ama il figlio di un’altra.
‒ Mamma, c’era un elefante e anche… ‒ Margherita sommerse la madre di frasi e racconti senza capo né coda. Felice di essere tornata, di far partecipare una madre che non poteva uscire, ma che presto l’avrebbe ricondotta a una vita diversa.
Non c’era Maria ad attendere il figlio. Giacomo iniziò a piagnucolare e il bastoncino che teneva ancora in mano, a tremare.
‒ Non fare così, domani tornerò a trovarti e faremo ancora qualcosa di bello – gli promise Marco.
‒ Vieni, piccolo, ti porto da tua madre – gli disse l’educatrice.
‒ Sta bene? – intervenne lui.
‒ È un momento difficile, ma la crisi sembra essere passata. Ha dormito un po’ e adesso è in sala con le altre.
Perché non è venuta a prendere il figlio? si chiese Silvia.
‒ L’avete punita? – chiese ancora lui.
‒ Oddio, no. Non usiamo tali metodi di contenimento. Abbiamo chiesto al dottore di visitarla e le ha dato un sedativo. – Lui -, e con gli occhi indicò il bambino – non deve avere paura di lei. Però è sempre più incontrollabile.
Era vero. Silvia l’aveva vista sbroccare di brutto molte volte. Spesso anche senza motivo. Il suo carattere rissoso, aggressivo e prepotente non era migliorato. Neanche di fronte al decreto di affidamento di Giacomo a una famiglia affinché vivesse all’esterno, l’aveva piegata. Ma il bambino aveva bisogno di affetto, protezione e di poter osservare adulti ragionevoli. Maria, i suoi crimini, l’assenza di familiari erano il passato. Giacomo doveva trovare l’amore.
‒ Vai – Marco incoraggiò il bambino e lui si avviò a fianco dell’educatrice, rivolto all’area dove viveva da due anni, con lo stecco di zucchero filato ancora in alto, piangendo chissà per cosa. Forse perché non voleva tornare. Forse perché non voleva più uscire. – A domani, piccolo mio – sussurrò.
Uscirono in silenzio. – Questo cazzo di freddo non vuole più smettere – le disse e Silvia sentì il brivido scenderle per la schiena, il nodo alla gola non le permetteva di parlare.
Con una mano gli strinse una spalla. Il cancello si richiuse dietro di loro. Avrebbe voluto invitare Marco a salire, a guardare di nuovo la struttura dall’alto. Ma non ne ebbe il tempo. Lui la spinse contro quel cancello così invalicabile, la strinse in un abbraccio disperato, dove solo i respiri si percepivano, solo le braccia di lui che la stritolavano, solo la sua testa che spingeva su una spalla e il naso tra colletto e sciarpa a ghiacciarle la pelle. L’aria era gelida, ma così pulita da ferire le narici. In quell’abbraccio, Silvia si perse chiudendo gli occhi, dimenticando Margherita, Giacomo e Maria. Trovò in lei il desiderio di affetto, di appartenenza per ciò che era e non per ciò che faceva al centro. Desiderò un amore che non andasse mai via e che potesse essere sempre presente. Desiderò che fosse lui questo amore. Gli toccò i capelli e scese con le mani alla nuca, stretta tra sbarre e Marco. Si concesse di stare lì, tra il paradiso e l’inferno.
‒ Tra tre giorni sarà Natale – disse lui e le parole le sfiorarono la gola.
‒ Non possiamo impedirlo – e lo toccò più forte, scavando con i polpastrelli la pelle della mandibola, del collo, del Pomo d’Adamo che si muoveva convulso.
‒ Devo fare qualcosa – continuò dietro un pensiero che Silvia non condivideva.
‒ Allora vai a parlare con i Servizi del carcere. Ti sapranno indirizzare – gli suggerì pensando che con Giacomo sarebbe andato via anche Marco.
Maledetto Natale.
Le braccia di Silvia scivolarono giù. Era giusto così. I due bambini che avevano permesso loro di conoscersi sarebbero andati in direzioni diverse. Così anche Marco e Silvia. Ci sarebbero stati altri minori da aiutare, altre vite da conoscere, ma non Margherita. Non Giacomo. Non Marco.
‒ Non so se ce la farò ad arrivare alla fine – le disse staccandosi e voltandole le spalle.
Se ne andò come se non ci fosse mai stato un abbraccio. Mai un bacio. Mai una speranza per loro due.
‒ Invece devi farcela – sussurrò alla notte, ai ghiaccioli che pendevano dal cornicione di casa sua, alle finestre del quarto piano dove, in tutta probabilità, sua madre stava preparando la cena.
Faticò a salire le scale e senza salutare uscì sul balconcino. La stanza di Maria era buia.

***    

Non era più venuto al Centro. Per due giorni Marco non aveva portato fuori Giacomo. In realtà, Silvia non aveva incontrato il bambino e Maria neanche nel salone principale. Aveva avuto paura a chiedere di loro. Nessuno doveva provare quella delusione a Natale. Eppure lei ne era sommersa. La vigilia di Natale era un buon giorno per i saluti.
Margherita le si avvicinò. – E la cioccolata calda?
La guardò con attenzione. Voleva memorizzare quel visino, le mille espressioni, i sorrisi e le sfumature della voce. Capiva la paura che Maria provava nel pensare che Giacomo l’avrebbe dimenticata.
‒ Mi penserai qualche volta? – le chiese pur sapendo che la sua figura era destinata a scomparire. La vetrina più colorata dei Portici era quella con i peluche infiocchettati. Margherita ci si fermò davanti e Silvia la invitò a entrare. ‒ Quante cose belle. Ti piacerebbe portare a casa un pupazzo di questi?
‒ Sì, tanto.
‒ Allora scegli pure quello che vuoi. – Osservò la felicità sotto forma di un faccino sorpreso e manine pronte a toccare tutto.
‒ Questo mi piace troppo – disse Marghe sollevando un orsetto tutto bianco.
‒ È davvero bellissimo. Però gli manca qualcosa. – Da un espositore tolse una collanina di raso da cui pendeva un cuore imbottito. Vi era ricamato il suo nome. Silvia lo mise attorno al peluche e il rosso della stoffa spiccò sul bianco del pelo. Chissà se sarebbe bastato per restare viva nei pensieri di una bambina pronta a conoscere il mondo vero? Ma le cose andavano così e non si poteva cambiare il destino neanche chiedendolo a Babbo Natale.
‒ Ora la cioccolata calda – propose tenendo stretta la mano di Margherita.
Quella sera non guardò la struttura dal balcone. Le detenute potevano festeggiare la Vigilia? L’indomani Valentina sarebbe tornata libera. Non doveva più occuparsi di Margherita perché sarebbe partita con la madre e con il padre, salito dalla Puglia per riportarle a casa. Doveva esserne felice e, presto, ci sarebbe stato qualche altro bambino a cui mostrare il Parco del sole, il circo, le passeggiate. Ma il suo cuore non era pronto.
Aveva riconsegnato la bambina alla madre dandole solo un bacio caldo pieno di sentimento inespresso. Aveva abbracciato Valentina e le aveva augurato ogni bene. Si era portata a casa il grazie che loro due le avevano dato di cuore.
Dalle sette del mattino faceva la spola tra salotto e balcone. Il vento era cambiato e la Bora soffiava forte. Grosse nuvole si muovevano dal mare verso la montagna, ma silvia non mollava e, ogni cinque minuti, tornava a guardare fuori, verso il cancello del Centro, le finestre e il retro.
Erano le otto e trenta quando la camionetta scura del carcere San Donato si fermò per poter accedere allo spiazzale. Le sembrò di avere aspettato un secolo prima di vedere l’educatrice accompagnare Maria piena di sacchi neri della spazzatura con le cose accumulate in due anni di permanenza. Non riuscì a vedere che espressione avesse, né se stesse piangendo. Ma Giacomo non c’era e Maria non si voltò mai indietro. Se ne andava definitivamente dal centro Orizzonti per essere trasportata nel carcere femminile di Sulmona e finire di scontare i tredici anni di reclusione. Ma dov’era Giacomo? Perché Marco non era lì a impedire che succedesse tutto ciò?
Il furgone ripartì, il cancello si chiuse, l’educatrice tornò all’interno, ma Silvia non lasciò la sua postazione. Attese fino a che un’altra vettura si fermò davanti all’accesso blindato. Un uomo scese, chiese il permesso di entrare e varcò il limite. Ne uscì un paio di volte carico di buste e valige. La terza volta venne fuori con un carico diverso. Portava in braccio Margherita e il suo peluche bianco. Dietro di loro, Valentina camminava piano, come se volesse assaporare quel tragitto che la portava finalmente via.
E poi sentì la sua stessa voce uscire dalla bocca, la sua mano allungarsi verso la bambina. – Marghe! Marghe, sii felice – gridò dal quarto piano e gli occhi di tutti, anche di alcuni passanti, si alzarono su di lei. L’uomo le fece un cenno con la testa, Valentina sembrava sorriderle e Margherita la salutò muovendo frenetica la manina, fino a che il padre non la depose dentro l’automobile. Se ne andava, portandosi via i suoi ultimi due anni. Nessuno l’aveva obbligata a intraprendere un simile percorso, aveva offerto il suo tempo, la sua libertà di movimento. Aveva ricevuto in cambio un affetto sincero, un’esperienza indimenticabile.
Silvia alzò il viso al cielo. Piangere un po’ le avrebbe fatto bene e con le lacrime scesero anche i primi fiocchi di neve. La perturbazione proveniente dai Balcani era arrivata, smorzando un po’ il freddo intenso.
Sentì i fiocchi sulla fronte, sulle guance, sull’intero viso.
‒ Silvia? – la chiamò sua madre affacciandosi al balcone.
‒ Non dire che è una cosa positiva e che tutto è andato bene – la pregò continuando a stringere le palpebre.
‒ Non lo dirò, anche se lo penso. Però, adesso vieni dentro. Sei qui fuori da tre ore.
‒ Sì, arrivo – le promise senza alcuna voglia di rientrare, né di festeggiare quello schifo di Natale.

***   

Aveva piluccato qualcosa: un paio di tortellini in brodo, una forchettata di lasagne, un pezzo minuscolo di agnello alla brace. Niente panettone e torrone. Aveva detto ai suoi genitori che andava a fare un giro ed era uscita a piedi, voltando la testa dalla parte opposta al centro Orizzonti. Aveva camminato un bel po’ fino a che non era arrivata al Parco del sole. La neve aveva già imbiancato tutto. Ce n’era un palmo sui sedili verdi e rosso delle altalene, sulla nave basculante, sulla pista di pattinaggio, sulle panchine e sulla terra nuda senza un filo d’erba. Era tornata al parco come faceva ogni pomeriggio. Questa volta da sola, senza Margherita, senza Giacomo. Senza Marco. Il posto aveva una magia tutta sua, forse per il riverbero delle luci colorate sul manto bianco, per l’assenza di orme che dava un senso di immacolato e intatto, o per la neve che scendeva dolcemente. Desiderava sentire Marco indipendentemente da tutto. E lo vide. Vide Marco avanzare dall’entrata est, sotto i fiocchi di neve, a capo scoperto. Per un momento, lui si fermò a guardare i giochi e le luci che pendevano un po’ in tutto il parco. Poi, il suo sguardo si fermò sulla campanella sospesa sopra la testa di Silvia. Le sorrise ma Silvia restò con la faccia rigida.
‒ Dov’è Giacomo? – gli chiese.
Non le rispose fino a che non la raggiunse. Il fiato di entrambi si mescolò davanti alle loro facce.
‒ Maria se ne è andata stamani – continuò, mentre cercava in lui qualche traccia di dolore.
‒ Lo so.
Aveva occhi belli quell’uomo che non voleva risponderle e una bocca dolce che Silvia desiderava ancora toccare.
Poi, un sospiro lungo. – Giacomo è andato ad abitare con la famiglia che lo terrà in affidamento. Lo hanno trasferito da due giorni. I servizi hanno dovuto accelerare la procedura il loro incontro perché Maria stava spaventando il bambino. Ha minacciato più volte di ucciderlo per tenerlo con sé. È crollata emotivamente già da tanto.
‒ Non lo sapevo. Avevo immaginato un distacco graduale. Così si sentirà spaesato in un ambiente nuovo, con adulti che non conosce e senza… - non ce la fece a dire madre.
‒ Sono stato con lui. – Marco sorrise. – Lo sto aiutando ad ambientarsi. Potrò vederlo e seguirlo. Ogni volta che avrà bisogno potrò esserci.
‒ Devi volere molto bene a Maria per fare tutto ciò. – Quanto le piaceva vederlo, sentirlo, sapere quali progetti stesse portando avanti.
‒ Non lo faccio per lei, ma per me. Io voglio davvero bene a quel bambino.
Lo si capiva da come sorrideva alla neve e ai giochi ammantati, dallo sguardo vivace, da come il suo corpo si era aperto al futuro.
‒ Perché sei qui, Marco? – Le loro orme stavano scomparendo e la nevicata si intensificava.
‒ Volevo sapere come stavi. Ho chiesto ai tuoi genitori, ma loro non hanno saputo dirmi dov’eri andata. Questo è l’unico posto che conosco.
‒ Hai fatto più di cento chilometri.
Marco si strinse nelle spalle. – Non me ne sono accorto.
‒ Io, invece, ho sentito la tua mancanza. – Gli si avvicinò ancora di più. – L’ho vista partire. Margherita era felice in braccio al suo papà che conosce a malapena. – Smise di parlare quando lui allungò la mano per toccarle il viso. Sapeva di essere gelata, ma non si sottrasse. – Sei venuto a salutarmi. – Anche lui stava andando via ed era giusto così.
‒ Sono venuto per augurarti buon Natale.
‒ Non è stato proprio un bel giorno. – La sua mano la invitava a chiudere gli occhi e a sentirlo meglio, per conservarne il ricordo più a lungo.
‒ Silvia… ‒ Le labbra di Marco sfiorarono le sue. Le lasciò un alone di dolore per ciò che era accaduto, un soffio di speranza per ciò che poteva accadere in futuro. – Potrei venire a trovarti, se anche tu volessi vedermi.
‒ Non so nulla di te, tranne che mi sei mancato e che ti ho cercato in questi due giorni.
‒ Allora chiedimi ciò che vuoi, vieni a vedere com’è la mia realtà.
Silvia percepì la pressione delle labbra, delle mani di Marco unite ai fiocchi che le raggiungevano la fronte.
‒ Mi piacerebbe infilarmi nella tua vita. E anche vedere Giacomo, qualche volta. Quando si può, naturalmente.
‒ Ho sognato di sentirtelo dire. 
Marco continuò a sorriderle. Il Centro Orizzonti sembrava lontano mentre la neve scendeva e il giorno di Natale volgeva alla fine.
‒ Dobbiamo andare via o resteremo sepolti.
Intorno a loro tanti giochi, tanti ricordi innevati. Era un luogo caro e Silvia fece fatica a lasciarselo alle spalle. Ma non abbandonò la mano di Marco mentre lui la guidava verso la sua auto. Non si voltò indietro mentre la sua mente formulava immagini di loro due, di un futuro prossimo molto concreto. Lui le stava offrendo un inizio. Forse non le sarebbe piaciuto. Oh, cavoli, come poteva non piacerle un uomo che amava con una tale intensità? L’avrebbe scoperto. In fondo, lei lo amava già da un po’. Da quando quel Natale si era profilato catastrofico e il dolore era caduto sulle loro spalle. Lui era venuto senza un regalo, senza una speranza, a capo scoperto, con la sola voglia di parlarle. 
‒ Buon Natale, Marco. – Era il suo augurio di cuore. Il suo dono speciale. Il suo inizio.   
Fine


CHI E' L'AUTRICE...
Emiliana De Vico vive in un paesino dell’entroterra abruzzese insieme al marito e ai due figli. È laureata in Scienze sociali e lavora presso i Servizi sociali di zona. Appassionata di romance fin dall'adolescenza, ha partecipato a numerosi premi letterari nei quali si è distinta e ha pubblicato sia per l’editore digitale Delos sia in self-publishing, scalando la classifica Amazon.


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24 commenti:

  1. Ho avuto il MAGONE dall' inizio alla fine della lettura !!! Con un colpo di scena che permettesse a Marco e Silvia d' aver in custodia il piccolo Giacomo sarebbe stato... SEMPLICEMENTE PERFETTO !!!!

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  2. Intenso, dolce e triste ma con tanta speranza di un futuro felice per tutti. Buon Natale!

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  3. bello tenero e anche un pò angosciante ma con un respiro di libertà nel finale

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  4. Delicato e profondo come delicata e profonda sa essere Emiliana De Vico. Un racconto triste ma allo stesso tempo che porta in sé il germe della speranza e della rinascita. Complimenti!

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  5. Leggo sempre Emiliana con grande interesse. Per Natale ci ha regalato un racconto in cui tristezza, dolore, dolcezza, amore e speranza si mescolano come nella vita vera. Stupendo!

    Nora June

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  6. sono felice di sapere che hai apprezzato la mia visione della vita. Grazie

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    1. E' sempre un piacere leggerti!

      Nora

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  7. Avrei preferito leggerlo in un giorno che fosse proprio Natale. Sono una di quelle lettrici da visione edulcorata, questo racconto mi ha lasciato moltissima tristezza, sebbene abbia tirato un grosso sospiro di sollievo per il lieto fine.
    Oh, Emiliana sceglie sempre storie toste.

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    Risposte
    1. Oh mi spiace averti creato tristezza. Mi spiace

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  8. Profondo e toccante, mi è piaciuto.
    Ma una domanda: perché il titolo "ti odio Natale"....? in fondo è finita bene per parte dei protagonisti: una famiglia si riunisce (quella di Margherita) e Silvia e Marco trovano l'amore ..... non mi pare un brutto Natale...
    A meno che il Ti odio Natale sia riferito a Maria a cui portano via Giacomo...
    Comunque bella trama, fuori dalla solita routine , tocca un argomento molto delicato, complimenti.

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  9. Non hai tutti i torti. Il romanzo è quasi del tutto "Sul disperato", MI SEMBRAVA GIUSTO DARE UN TITOLO CHE FACESSE CAPIRE IL TONO DELLA NARRAZIONE.

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  10. Un racconto scritto benissimo ma piuttosto angosciante. Fortunatamente il finale lascia spazio alla speranza per il futuro di tutti. In conclusione ho trovato un Natale da odiare ma anche da amare. Complimenti all'autrice per un racconto sicuramente non banale.

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  11. Bel racconto. Anche Natale ha i suoi chiaroscuro ed è giusto ricordarli. Grazie all'autrice.
    E.

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    Risposte
    1. Grazie di cuore. I nomi che iniziano per E. sono i miei preferiti <3

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  12. Ciao cara Emiliana :-* Il MAGONE t' ha appena procurato il mio. . . 1° VOTO :D BUONA FORTUNA ;)

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  13. bel racconto triste ma con un finale aperto alla speranza spero che possa approfondire la tematica delle adozioni in un sequel auguri bi un anno proficuo.elisabetta

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  14. che sia un buon anno anche il tuo. Grazie

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  15. stupendo! amo solitamente le storie più divertenti, ma il racconto mi ha emozionato molto, tanto che la lacrima è scesa verso la fine. da podio senz'altro!!

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